Interviste
Calibro 35: Scavando Attorno al Jazz

Ciao ragazzi, partirei dall’attualità del vostro ultimo EP. Da dove nasce, anche a livello di dinamiche di gruppo e tempistiche, l’idea di questa sorta di “rapina a mano armata” nel jazz che è Jazzploitation?
Max: I Calibro hanno sempre un po’ lambito l’argomento jazz, perché era una delle componenti delle soundtrack dell’epoca. Poi, come era già capitato quando ci hanno commissionato un concerto monografico su Morricone, dal quale poi abbiamo estratto il disco Scacco al Maestro, in questo caso l’input è venuto da JAZZMI, il festival dedicato al genere a Milano, che ci ha chiesto una cosa speciale, con jazz nel nome. Infatti è arrivato prima il nome Jazzploitation, un’illuminazione di Tommy che è il nostro “nomista” ufficiale, e poi il confronto con questa parola. Come sai, quando vengono toccati dei generi in maniera così manifesta, c’è sempre un po’ la “police” del genere, ma a noi ha sempre salvato l’essere dei frequentatori di passaggio: i Calibro si nutrono certo dell’immaginario, ma soprattutto delle personalità dei musicisti e dell’alchimia che ne viene fuori. E quindi ci siamo permessi di cercare di capire che cosa significava ‘sto jazz per noi. Ci si è resi presto conto che la parola jazz per ognuno significava una cosa diversa: sia Zorn e New York negli anni Ottanta, che le cose più classiche dei Wes Montgomery, Jimmy Smith e compagnia bella degli anni Sessanta. Nel confronto abbiamo trovato la quadra, ad esempio, con questo pezzo di Dalla ["Lunedì Cinema", Ndr] che è uno scat jazz, ma molto funk e iconico, che abbiamo pensato potesse far capire che la nostra declinazione di jazz era, diciamo, slegata dagli standard, per dire da Caravan, che pure avevamo valutato di fare nella versione di Piero Umiliani. È stato proprio un divertissement sul genere.
Tecnicamente, a livello di produzione, quali nuove sfide avete dovuto affrontare per queste quattro tracce e come sono state le session per l’EP? Cosa è cambiato da Nouvelles Aventures?
Enrico: Io non percepisco questo cambiamento, o almeno non me ne rendo conto. Le questioni tecniche hanno molto a che fare con la produzione, con la funzionalità delle cose e molto spesso non ci fai caso, come se ci fosse un’auto e poi ce n’è un’altra: non guardi il motore dentro, è funzionale andare da A a B. Quello che facciamo a me sembra sempre più o meno lo stesso iter. Poi sugli strumenti, sono ormai anni che ho più o meno lo stesso setup, striminzito. In Jazzploitation una cosa che ho aggiunto un po’ di più sono i fiati, più presenti rispetto allo standard Calibro: ho usato anche il clarinetto basso, qualcosa in sol, forse perché il mondo jazzistico richiede anche quel tipo di dialettica. Però di base in studio abbiamo dinamiche consolidate. Poi c’è Tommy che fa un po’ la scrematura, che sta accanto a noi mentre suoniamo e ci dice a posteriori “io avrei fatto così, io sposterei questa cosa qui”. Ma l’approccio di noi quattro suonanti, io, Max, Fabio e Roberto, è sempre quello. La forza nostra è quella di non incastrarsi sulle tecniche, sul discorso, sulla progettazione. O se lo facciamo, avviene dopo, fuori dallo studio.
Max: Il fatto è che ognuno di noi ha maturato un proprio percorso sonoro e metodologico che ci permette di “farla facile”, di trovarci in una stanza insieme, premere rec e venire fuori come i Calibro, qualsiasi cosa facciamo. E poi partiamo da lì con tutte le peculiarità del caso: in questo progetto, ad esempio, ci dilunghiamo dal vivo, com’è successo al teatro Dal Verme di Milano per JAZZMI, in parti un po’ più cavalcate e “assoli”, anche se non è proprio la parola giusta. C’è anche un pezzo dal vivo dove Enrico canta, cioè Vitamin C, che non è nell’EP. Quindi per dire che, anche se l’approccio è sempre tutti quanti insieme nella stessa stanza, questi elementi di novità sicuramente ci sono.
Il brano che mi ha colpito di più è Ascenseur pour l’Echafaud che è stato talmente rimaneggiato da far quasi cambiare il genere al film per cui è stato composto quel tema. Siete partiti dal film, dal modello di Miles Davis o altro?
Max: E che film è diventato per curiosità?
Beh, quasi uno spy movie, con qualche tinta erotica.
Max: Ah, bello, ci sta. Eh sì, c’è il flauto al posto della tromba, c’è la chitarra che non c’era che fa la psichedelia.
Enrico: Allora, posso dire com’è andata? Ho deciso di usare il flauto contralto, che è uno strumento un po’ sinuoso, sensuale, non frequente, ma molto affascinante. Ho detto, vado su internet, mi scarico lo spartito che qualche pazzo ha trascritto dell’assolo di Miles Davis, e poi basatevi voi sulla mia tonalità, perché non ho nessuna intenzione di trasportarlo ulteriormente.
Anche a livello di live avete, in un certo senso, accolto quell’approccio all’improvvisazione, alla singolarità di ogni esibizione che viene dal jazz?
Max: Sicuramente abbiamo fatto una selezione di brani inserendo anche alcuni autografi e altro, come Mission Impossible, che viene piuttosto bene fatto alla Calibro. C’è anche un po’ di improvvisazione, e poi c’è il nostro momento storicamente più selvaggio che è sempre stato Trafelato di Morricone. Abbiamo reintrodotto Buone Notizie, che è un brano in tre, proprio super jazz, con una parte centrale di assoli infinita centrale. Sono tutti ingredienti che ci siamo ritrovati a mettere dentro e stiamo maneggiando questa materia, con la bolla di suono che sono i Calibro e che abbiamo maturato nel tempo, con una leggerezza nuova e diversa. Una novità grossa finalmente sono anche i visual pensati ad hoc di Matteo Castiglioni e fatti live al JAZZMI, che andremo magari a riproporre nei prossimi spettacoli in formato adattato ai diversi contesti, perché aggiungono un ulteriore livello di fruizione, a volte prendendosi la scena, a volte lasciandola a noi che siamo a suonare sul palco, in una fusione che per me è molto interessante per il pubblico.
Il tema del nostro numero è La Musica Degli Altri. Cosa ha significato lungo il vostro percorso sia con i Calibro 35 che personalmente la musica degli altri. Stimolo? Confronto? Mostro sacro?
Enrico: È la base, siamo partiti dal confronto con i brani dell’action movie italiano. Poi a onor del vero abbiamo suonato Trafelato e Notte in Bovisa che sono due cose molto diverse. Da lì abbiamo fatto necessariamente tantissimo lavoro di scavo, di ricerca. Siamo a tutti gli effetti un gruppo di ricercatori in qualche maniera.
Quasi filologi?
Enrico: Beh, questo non lo so. Siamo gente abituata all’azione, a prendere e fare. Poi è capitato anche di lavorare spesso in contesti di lavoro individuali, ad esempio come musicisti da film. E quando scrivi musica da film non apri le cataratte della libera interpretazione di te stesso. Non è un contesto romantico. Devi metterti al servizio del regista, della produzione. Tu sei una macchina che produce musica per conto di altri. Conosciamo anche artisti che sono più centrati su se stessi, che fanno molta fatica a fare altro. Noi evidentemente non siamo tra questi, anche perché maneggiando la materia con disinvoltura, abbiamo le skill sufficienti per affrontare cose altrui. Poi chiaramente i Calibro 35 hanno una matrice personale, anche proprio di visione compositiva, improvvisativa molto precisa. Per cui gli altri sì, ma c’è anche quello che è nostro, proprio per sognare.
Max: Quando hai detto filologi, mi è venuto in mente questo: secondo me quello che ci salva tanto è il fatto che non siamo dei fanatici. A noi non ce ne frega niente di fare la roba identica, a meno che non sia una scelta dichiarata come esercizio di stile e divertimento. Non siamo dei pruriginosi dell’estetica. Spesso e volentieri i fan che ci seguono da tanto sono molto molto più addentro all’immaginario delle colonne sonore, al collezionismo, alla versione. La ricerca sugli altri, sì, invece è parte essenziale di quello che siamo come Calibro e come persone. Tutti i giorni cerchiamo delle cose, in tanti modi, per mettere il prodotto di queste considerazioni e ricerche personali a servizio di un progetto che ha un’idea, dove la filologia è veramente una parte minima. Quello che facciamo è mutuare un’idea, delle intuizioni, delle attitudini, di tutto quello che è fare musica per immagini, della quale ci nutriamo. Se poi andiamo nel campo delle soundtrack e delle sonorizzazioni, “la musica degli altri” sono le famose temporary track, che la produzione, il regista, il montatore mettono su prima che i musicisti facciano la musica. E, a detta di tutti, da Hans Zimmer a Desplat, da Reznor a Elfman, sono il male di ogni compositore, perché ti costringono al confronto con del materiale che non è tuo e che ti hanno appoggiato lì dicendo “Non deve essere questa, però ci piacerebbe che la rispettasse”. Per non parlare di quando lì sopra montano del materiale tuo preso altrove, che devi reinventarti senza auto-plagiarti. Pensa al povero Morricone al quale il mood del tema di Indagini su un cittadino lo avranno chiesto per ventimila film.
Chiudiamo con l’angolo consigli: uno strumento da provare, un disco da riascoltare, un live da scoprire?
Enrico: Anche se non è di facilissima esecuzione perché serve il contesto giusto, dico il flauto contralto, che è uno strumento ampio, un flauto traverso più grande che arriva un po’ più in grave e ha forte capacità evocativa. Da un lato è molto nobile, molto francese, con tutto un immaginario fantastico che proviene anche dalla musica classica di Debussy, e dall’altro arriva a lambire il paesaggio sonoro da giungla. Un disco che vorrei consigliare, magari un po’ sparito dai radar, è Sound-Dust degli Stereolab del 2001. Mi cambiò la vita all’epoca, vario, lungo, articolato, con modelli anni ‘70, gong francesi, la lounge di Piero Umiliani, tutto frullato insieme. Live dico il remastering di Stop Making Sense dei Talking Heads, che forse è tra gli esempi più alti di opera dal vivo nella storia della musica, con quello straordinario concerto in costruzione. E ti nomino anche i live di Dallamericaruso che puoi vedere nell’omonimo documentario: la seconda parte proprio con le performance di Dalla e gli Stadio in tutto il loro splendore a New York è proprio strepitosa.
Max: Io ti tiro fuori l’arpeggione, uno strumento ad arco antico che è a metà tra una viola da gamba e un violoncello, ma ha sei corde ed è accordato come una chitarra, con delle scanalature che permettono a un chitarrista di approcciarvisi. È molto sfidante ma, una volta che riesci ad accedere al mondo sonoro dello strumento arcato, e ce ne vuole, ti si aprono tutta una serie di possibilità sonore. E già per i Calibro lo sto utilizzando. Poi consiglio un disco live del 1988 che è When in Rome dei Penguin Cafe Orchestra, che è davvero un abbraccio perché la loro musica, per quanto minimale, beneficia tantissimo del contesto live e degli strumenti acustici. Dischi te ne dò due: uno da pruriginosi estremi che è il self-titled dei Latin Playboys, un progetto di Mitchell Froom e Tchad Blake, un delirio Tex-Mex in acido. E l’altro è græ, un disco del 2020 di Moses Sumney, che mi fa impazzire totalmente, un alieno.



