Interviste

Interviste di Redazione | 05-11-2025

Cristiano Godano: Melodia Oltre lo Smarrimento

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Cristiano Godano: Melodia Oltre lo Smarrimento

Il frontman dei Marlene Kuntz torna a mostrare la sua intensa anima cantautorale con Stammi accanto, il secondo album solista. Cristiano ci ha raccontato la sua idea di canzone, nonché l’evoluzione nel tempo del suo rapporto con lo strumento chitarra e con l’immagine del musicista. 

Ciao Cristiano! Parto con molto piacere dall’attualità e da Stammi Accanto. Da quello che mi è parso di capire è stata una “gestazione” piuttosto lunga, visto che hai iniziato a raccogliere questo nuovo canzoniere in epoca Covid. Ci racconti un po’ proprio la genesi e se hai cambiato qualcosa nel tempo?

Le canzoni sono rimaste tali e quali, nessuna modifica su quello che ho registrato all’epoca. Semplicemente, la composizione dei pezzi nasce in prossimità della scoperta del vaccino, quindi in un contesto sociale stremato ma nello stesso tempo speranzoso. Il tempo di registrarlo e il vaccino era stato ormai scoperto. Ho avuto la sensazione di avere per le mani un disco che non fosse in sintonia con quello scalpitare dell’umanità, quella comprensibile esigenza, fisica oltre che mentale, di evadere dalle proprie case, diventate le nostre piccole carceri per tutto quel periodo. Il disco non parla di Covid, non c’è una sola parola che vi faccia allusione, però nasce figlio di uno spaesamento, di una volitività tramortita. Perciò ho preferito congelarlo lì. Poi un annetto fa l’ho riascoltato e queste sensazioni si sono trasformate, perché nel frattempo il mondo è tornato in un suo personale abisso. Siamo di nuovo smarriti, quantomeno lo è chi è consapevole di quello che sta succedendo su più fronti. Allora, in qualche modo, il mio disco torna ad essere conforme con un sentimento più vicino a qualcosa che mi riguardava all’epoca.

Ho usato la parola “canzoniere”... è effettivamente così che vedi Stammi accanto, come una raccolta di canzoni o magari come un discorso più unico e organico che nelle tracce trova solo delle differenti declinazioni o episodi?

In genere i miei dischi, anche quelli dei Marlene, sono sempre stati fatti di canzoni che vivono ciascuna un po’ per conto suo. Anche questo è un disco così, almeno dal punto di vista contenutistico. Dal punto di vista estetico a me sembra che sia il disco forse con la maggior presenza di componente melodica fra tutti quelli che ho pensato finora. Si sente, a mio avviso, proprio il mio desiderio di fare delle canzoni belle e per me le canzoni belle hanno una gran melodia dentro.

Guardando al “personale in sala”, a livello di produzione mi sembra siate andati in continuità rispetto al precedente lavoro, di nuovo con Luca Rossi in regia come produttore. Come sono state le recording session? Avete lavorato su qualche pezzo in particolare?

Non c’è stato un pezzo che ci ha dannati in maniera particolare, forse la ricerca di qualche pattern di batteria ci ha richiesto un attimo in più per capire cosa chiedere esattamente a Simone, il batterista. Per il resto i pezzi sono scivolati bene via, anche perché li avevo già nella loro struttura molto chiari in testa, erano scolpiti. Io lo chiamo disco artigianale perché siamo veramente stati io e Luca Rossi a portare avanti tutto, Luca ha ingaggiato i suoi amici di sempre, quindi Ezio al violino e Simone alla batteria, giusto appunto, e siamo andati negli studi di Vittorio Cosma che è un amico e tastierista sopraffino. La particolarità principale di questo disco è proprio il suo essere, al netto della presenza di musicisti esterni, fatto da due persone, in questo senso artigianale. Io non sono tecnico, quindi non so mettere le mani sulle macchine, però è una cosa che ha fatto lui, non c’è stato l’ingegnere del suono, il tecnico e quant’altro. Abbiamo portato avanti questa mission proprio perché i tempi erano strani, c’era l’onda lunga dei contingentamenti, quindi non era neanche facile ingaggiare i musicisti e farli venire a suonare lì da te.

Sul brano Nel respiro dell’aria ho trovato molto interessante e sorprendente l’uso del banjo. È una cosa che avevi già pensato così o è arrivata dopo questa idea?

È stata un’ottima idea di Luca quella e mi ha trovato immediatamente favorevole, anche perché mi porta in certi mondi musicali, tipo Un uomo da marciapiede, un film con dentro questi pezzi anni 70 che hanno un po’ quel sapore. Sentire questa atmosfera in un mio disco mi ha fatto particolarmente piacere, mi ricorda anche Fred Neil, Mickey Newbury, tutto un universo di cantautori degli anni 70 americani.

Come hai immaginato lo spettacolo che porterai in tour per Stammi accanto e come stai vivendo la preparazione al tour stesso.

Abbiamo fatto le prove con i Guano Padano una settimana fa circa, sono stati due giorni magnifici perché ne sono uscito con una sensazione inebriante. Per la pandemia, io non ho ancora potuto suonare nessun mio pezzo solista, neanche quelli del disco precedente, con una band. Ora finalmente posso. Complici la loro bravura e perizia - due di loro bazzicano più l’area jazz moderna e sperimentale [Danilo Gallo al basso e Zeno De Rossi alla batteria, NdR], mentre Asso [Alessandro "Asso" Stefana, NdR] è più rockettaro - si sta raggiungendo l’idea di suono che ho per le mie cose solitarie, che ha a che fare secondo me con l’eleganza e la classe, con l’arrivare sul palco sicuri dei propri mezzi, per fare un concerto che sarà all’80% intimo, con due o tre momenti che faranno veramente scuotere la gente. Però senza nessun timore di cadere in pesantezze, perché ogni nota suonata, con l’amalgama dei musicisti, restituisce l’intensità e l’eleganza che desidero.

Ci parli un po’ del tuo rapporto con lo strumento chitarra in sé partendo da come è nato?

Il mio rapporto con la chitarra nasce quando intorno ai miei 19 anni circa mi metto in testa, nel contesto sociale della mia cittadina 30-40 anni fa - intorno a me non è che ci fosse questo rifiorire di musicisti giovani che volevano mettere su una band - come un fungo strano insieme a un amico lì a Fossano, di emulare chi ci stava dando un sacco di emozioni speciali. Io penso in particolare ai Gun Club. Una band per me clamorosa, all’epoca erano dirompenti, con quella forma di punk blues incredibile e la loro intensità lirica. Quindi io comincio a mettere le mani sulla chitarra per emulare quello e decido di mettere in piedi una band [i Marlene Kuntz, NdR] fin da subito con un desiderio smisurato di farcela. Con molta serietà, lentamente, ne ho fatto la mia ragione di vita. Il mio approccio con la chitarra non è, come si usa dire, nerd. Riccardo Tesio, il mio sodale di sempre, darebbe più soddisfazioni ai musicisti che vi leggono. Di rimarchevole, io e Riccardo abbiamo avuto l’intuizione, che poi non era nostra ma era dei Sonic Youth, di avere più chitarre accordate in modo diverso sul palco. Accordature molto particolari, non soltanto il drop D, ma molto molto più particolari che arrivavano proprio da questa scuola Sonic Youth e che questi, a loro volta, avevano appreso da Glenn Branca, che fu un compositore abbastanza sui generis del periodo. Questa è una cosa che ha caratterizzato molto noi e il nostro suono. A differenza dei Sonic Youth, noi andavamo in giro con 6-7 chitarre a testa, loro, nel periodo d’oro, penso ne avessero fra le 15 e le 20 a testa con sé. Però, insomma, avremmo dovuto avere un tir per portare dietro tutta sta roba. Se poi mi chiedi, pistola alla testa, Fender o Gibson, dico Fender.

L’oggetto in sé, con la diversa anima che può avere una Fender, una Gibson, una Ibanez, stimola e ispira la tua poetica in qualche misura? 

È un’ottima domanda. Però, in realtà, con lo stratagemma delle accordature diverse e dedicate, quello che caratterizzava il suono non era la chitarra in sé, ma l’accordatura. E quindi, lentamente, ho educato il mio orecchio in quella direzione. Curiosamente, tu hai nominato Ibanez e, per il tour del trentennale di Catartica, ho ritirato fuori una Ibanez che usai all’inizio del mio percorso, quando ancora era una chitarra che si comprava spendendo poco. Nonostante fossero passati almeno 25 anni senza toccarla, funzionava perfettamente, una gran signora chitarra, non c’era neanche quel disturbo dell’ossidazione quando giri la manopolina del volume, perfetta. Purtroppo non riesco a dirti il modello perché in realtà sulla paletta è tutto cancellato, non ha neanche più la guarnizione di plastica dietro a protezione dei molloni, che infatti su un pezzo in particolare mi metto a plettrare. Ha preso quasi la fisionomia di un qualcosa di diverso, una chitarra aliena.

In questo numero di SMMAG!, abbiamo cercato di esplorare l’impatto che gli strumenti hanno sull’immaginario collettivo della musica nella storia. Per te quanto è cambiata questa immagine dall’inizio del tuo percorso a oggi?

Agli inizi ero completamente suscettibile alla dimensione ribelle e dannata dei musicisti che piacevano a me. Il me stesso ventenne era preso dalla scoperta di tutto il mondo del post-punk, della new wave, e da lì in avanti inizia per me un percorso esaltante di emozioni esclusive. Torniamo al me ragazzo che vive in un paesino di 20.000 abitanti, dove intorno a me, oltre al mio amico speciale, nessuno ascolta quelle cose. C’era proprio l’elemento dirompente dell’esclusiva. Ti sentivi depositario di una verità che gli altri non conoscevano. Quando, da Cuneo, andavo a vedere questi artisti sui palchi di Torino, di Milano, venivo assorbito completamente dalla fisicità e dalla “coolness” del musicista. Ora è evidente che le componenti di ribellione e dannazione hanno molto meno appeal su di me. Sono anche più “sgamato”, riconosco chi è un vero ribelle e chi lo fa per convenienza. Mi interessa molto di più intercettare la potenza espressiva di un musicista. Anche i generi si sono molto più sfumati. Posso godere di un musicista bravissimo che fa qualcosa in un ambito che magari mi interessa poco, però ne posso godere lo stesso. Da giovani invece siamo manichei, qui c’è il nero e qui c’è il bianco.

In chiusura ti chiedo, uno strumento o un pedalino da provare, un libro a tema musicale che consiglieresti, un album da riascoltare.

A parte quando usavo le pedaliere, non ho mai avuto un vibrato, quindi mi interessa prima o poi trovarne uno ottimo da aggiungere alla mia strumentazione. Per il libro direi 1000 dischi per un secolo, di Enrico Merlin, una sorta di piccola enciclopedia che parte dal 1900 con gente come Béla Bartók, e arriva al blues, al rock, ai Sonic Youth, a Nick Cave, a PJ Harvey, agli Stones.  Il libro fa venire davvero voglia di scoprire dischi che non conosci. Più che album, suggerisco due band: i Tindersticks, che suonano una musica lentissima, introspettiva, piena di pathos, sono fantastici. Secondo me sono anche ottimi per gli amplessi. E poi c’è una band che arriva invece dal mio mondo, un po’ quello di Nick Cave, che è uno dei miei idoli di sempre, e che sono gli australiani Crime and the City Solution. Li ho amati tanto, un gruppo chiaramente minore, “underrated”, come si usa dire. Magari suonano datati, magari no. Però secondo me la sostanza è tanta.