Interviste

Interviste di Redazione | 04-11-2025

Marco Masini un mare di CURIOSITÀ MUSICALE

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Marco Masini un mare di CURIOSITÀ MUSICALE

Una singolarità nel panorama pop italiano, Marco Masini si è raccontato a SMMAG! sia negli aspetti creativi che tecnici del suo lavoro, al netto di una carriera discografica che è arrivata a compiere 35 anni, sempre alimentata da un’instancabile curiosità e dalla voglia di mettersi musicalmente alla prova. 

Ciao Marco! Da luglio in poi, ti aspetta Ci vorrebbe ancora il mare tour. Ci racconti il tipo di spettacolo che hai immaginato e come avete impostato il lavoro di pre-produzione live?

Ovviamente tutto ciò che faremo va ancora messo a posto nei dettagli, metabolizzato, rivisto e corretto, ma sostanzialmente è uno spettacolo che nasce con l’idea e la suggestione di tornare tutti un po’ negli anni 90, ripercorrendoli non solo attraverso gli arrangiamenti originali. Dopo tante sperimentazioni abbiamo capito, forse con la maturità, che le canzoni fanno parte della nostra vita anche a livello di sonorità, perché la sonorità fa parte dei colori della fotografia che scatti. Cambiarla, così come cambiare arrangiamenti, armonie, melodie, porterebbe tutti in maniera fuorviante a una realtà che non abbiamo mai vissuto. Allora per tornare lì credo sia indispensabile mantenere, ovviamente con delle dinamiche che tengono presente l’evoluzione musicale e tecnologica, dando un sound più di impatto, più nitido e definito. Ma sostanzialmente si tratterà di tornare a quella che era la canzone, così come è stata concepita e come è uscita poi dallo studio di registrazione. Ovviamente questo ci porta a fare scelte musicali importanti, sul repertorio abbastanza assortito a disposizione, selezionando e cercando di suonare più cose possibili dal vivo. Siamo in sei sul palco quindi per certe cose useremo anche le sequenze e delle programmazioni, ma almeno le più importanti cercheremo di farle dal vivo. Ci saranno sicuramente dei medley e quello che vorrei ottenere è un viaggio che parte davvero dagli anni 90 e ci riporta a oggi con quel sapore lì.

Una prima ricorrenza che celebri con il tour sono i 35 anni di carriera. Ci puoi raccontare come e quanto è cambiato il tuo approccio alla scrittura e alla produzione dal tuo primo disco fino a 10 Amori?

È stata un’evoluzione naturale, il mio modo di vivere la musica comporta l’aggiornarsi sempre, perché la musica è una scoperta. Dal primo contatto negli anni Sessanta, con un organetto giocattolo che i miei mi regalarono a quattro anni, ogni giorno per me è stata una scoperta fino all’arrivo a Sanremo. Ho cercato di dare continuità a ogni mia curiosità musicale, tecnologica, di genere, sociale e non, di andare a scoprire quello che sarebbe stato il domani, accettando quello che mi veniva proposto. Fino ad arrivare oggi a tutte le playlist che ogni venerdì mattina ascolto sulle piattaforme. Questa credo sia la maniera migliore per essere sempre affascinati dalla musica, altrimenti si rischia di restare nel proprio limbo di nostalgia, di considerare la musica di ieri sempre più bella di quella di oggi. Secondo me l’errore sarebbe gravissimo, perché vorrebbe dire non amare la musica nella sua interezza, nella sua metamorfosi continua. Di conseguenza l’approccio alla scrittura, alla realizzazione si basa adesso anche sulla ricerca di collaboratori più giovani che mi possano insegnare e regalare una direzione diversa rispetto a quella intrapresa ai miei vent’anni. Ho avuto la fortuna di conoscere tanti ragazzi, da Diego Calvetti a Lapo Consortini, a tanti autori frequentati nel tempo che mi hanno sempre dato l’opportunità di ampliare il mio modo di vedere, argomentare, il mio linguaggio, la mia metrica. E la mia visuale forse continua ad allargarsi ogni giorno, perché le offerte e le proposte musicali sono tantissime e la tecnologia ti dà possibilità infinite. Prima magari si partiva da un piano e voce, oggi per scrivere si può partire anche da una sonorità, da un groove, da un beat, da qualsiasi cosa. I cambiamenti sono stati epocali e questa cosa va presa con entusiasmo, che credo sia poi il regalo più bello che la musica ti possa dare.

Come è stata la tua gavetta e quale è stato il momento che ti ha fatto dire “ok ce la sto facendo”?

Il momento ce la sto facendo non esiste, perché basta una piccola distrazione e torni subito indietro di svariati chilometri. È sempre, a mio parere, importante stare coi piedi per terra e cercare lo step successivo. I bilanci si fanno sempre un po’ alla fine, inutile farli a metà. La musica ti dà anche la possibilità di sentirti un po’ più giovane di quello che in realtà sei, anche se magari il fisico ti butta un po’ giù di morale con il dolorino alla schiena, al collo, la sciatica e le cose della vecchiaia (ride, Ndr), però poi il cervello vuole arrivare oltre. Il cervello, grazie alla musica, spera di rimanere giovane e se continui a sgomitare, a salire, vuol dire che la mente è rimasta giovane davvero. È un mestiere difficile, fatto di creatività e più che altro devi stare spalla a spalla con te stesso, perché poi alla fine sei tu il primo nemico di te stesso.

30 anni da Il Cielo della Vergine. Un’anteprima del tuo ritorno nel 2025 su quella materia sonora l’abbiamo avuta a Sanremo con il duetto con Fedez. Che tipo di dinamiche si sono instaurate in studio lavorando su Bella Stronza con Federico e con un producer come FT Kings?

È stato un altro importante step nella mia vita artistica quello di lavorare con un ragazzo del 2003, coniugando tre mondi: il mio, quello di Federico e quello di FT, che ha fatto delle produzioni, da Simba La Rue fino a Baby Gang, che appartengono a un mondo ancora più avanti rispetto a quello che ero abituato ad ascoltare. È stata una sorta di coniugazione improbabile che ho iniziato a comprendere quando mi sono trovato lì. Mi ha gasato veramente tanto, ho studiato tutto quello che stavamo facendo, l’ho filmato, rivisto e ne sono rimasto affascinato. Abbiamo ottenuto un buon risultato proprio perché ci abbiamo lavorato con entusiasmo e apertura totale. Ci siamo aperti al mondo dell’altro e le cose si sono fuse bene insieme. E come l’abbiamo notato noi in studio, magari l’hanno notato fuori anche gli altri: giornalisti, discografici, il pubblico che ha gradito. Infatti, nonostante ci fosse stata un po’ di polemica e molti azzardassero conclusioni senza neanche aver ascoltato la canzone, quando poi l’hanno sentita le polemiche si sono subito azzerate.

Ti faccio una domanda che viola quasi un po’ la tua privacy. Ci racconti un po’ come hai organizzato il tuo home studio, quali strumenti usi di più, a quali librerie di suoni ti sei affezionato?

Sostanzialmente io lavoro con Cubase, col 14.2. Proprio con FT mi sono divertito a riscoprire Logic. Ma l’ho riscoperto male, nel senso che siccome lo conoscevo mi hanno messo a fare qualcosa lì, ma devo riconoscere che tornare indietro non mi è garbato così tanto. Cubase credo sia il programma più adatto per chi fa un lavoro tipo il mio, quindi non specializzato proprio a livello tecnico e fonico di programmazioni. Perché si allarga un po’ a 360° a quelli che sono i gusti e i desideri di un artista, un autore o un cantante. Chiaro che questi sono discorsi personali che chiunque può smentire. Poi io nasco pianista quindi il primo strumento ad aprire è un pianoforte, un N1 Yamaha con tastiera pesata che collego soprattutto a plug-in come Kontakt o Keyscape e questi sono la base per iniziare un progetto. Perché comunque scrivo con il pianoforte. Poi, per un discorso di praticità, mi trovo bene con Battery a buttar giù una prima guida ritmica, trovando velocemente i suoni di un kit. Se ho bisogno di un basso acustico o elettrico uso Trilian. La nuova versione è molto pratica, in tutti i sensi, anche con gli slide e l’effettistica. Ovviamente anche le piattaforme hanno un ruolo determinante, perché certe cose le trovi su Splice e puoi utilizzarle subito per dare una sorta di sound predefinito. Altri strumenti come Omnisphere o Padshop li uso per fare certi pad, o anche Alien per altri campionamenti, come determinati archi. Uso anche dei virtual di chitarra acustica che poi però sono costretto a far rifare in bella copia dai chitarristi bravi. In studio ho anche degli outboard da chiamare in causa in un secondo momento, quando comincio a dare una sorta di equilibrio, un mix al lavoro finale, come i compressori, un Panzer A serie 500, lo Shadow Hills, o l’EQ, un Violet. Poi ci sarebbe il sommatore che Daniele Coro mi sta convincendo a non usare più, sostenendo che “in the box” è meglio, ma io non ci credo tanto. È comodo per lui che lavora con un sistema di mastering finale che io non voglio usare. Preferisco il suono flat e fare un bel mix. Molto spesso ci troviamo a levare poi, a sentire l’ascolto del master e avere poi, al netto di quello, tutti equilibri diversi. Mentre io sono un po’ vecchio stampo, il mix deve essere il mix e il mastering deve essere il mastering.

Come è cambiato l’immaginario collettivo della musica in questi anni? Cosa ti veniva in mente quando pensavi a un musicista da ragazzino e cosa invece ti viene in mente oggi?

Il mio punto di vista è abbastanza avulso dalla mentalità generale del musicista, perché ricopro più ruoli e i ragazzi che suonano con me lo sanno. Da piccolo sognavo sicuramente di avere la possibilità di suonare il pianoforte nelle grandi occasioni. Non a caso mio padre e mia madre mi mandarono a scuola di pianoforte facendo lezioni private, dando degli esami al conservatorio da esterno con uno studio approfondito di quella che era la musica dal solfeggio fino al setticlavio. Cosa che non ho portato in fondo perché affascinato poi dalla musica moderna e da un modo di suonare il piano più “eltonjohniano”, più inglese. Però mi vedevo dietro un pianoforte. La cosa si è allargata con le prime serate da orchestrale, a 15-16 anni, perché suonando in una band andavo tanto in giro e fui costretto a comprare i primi pianoforti elettrici, prima il Rhodes e poi il CP80 Yamaha. Il fulcro era comunque un’emozione da regalare alla gente, che doveva essere priorità per chiunque facesse questo mestiere. La cosa ha cominciato a virare quando sono stato chiamato in studio di registrazione a fare le mie prime realizzazioni, con l’acquisto anche di alcuni emulatori e campionatori con floppy disc, i primi dinosauri del campionamento. Rimasi colpito dall’elettronica degli anni Ottanta, quella limitata, dove le batterie elettroniche erano tre - la Linn, la Roland e l’Oberheim - e i sintetizzatori avevano quel carisma che oggi è diventata magia, ma che a quei tempi era comunque scomodità, per via degli oscillatori, dell’accordatura e della grandezza delle tastiere stesse.

In chiusura ti chiedo, uno strumento da provare, un film anche documentario a tema musicale che consiglieresti, un album da recuperare o scoprire

Chi è pianista si dovrebbe appassionare all’organo Hammond, che credo sia un monumento. E non soltanto perché sono un grandissimo ammiratore di Jon Lord, ma l’organo Hammond è stato anche strumento di stimolo per Blackmore per fare il riff di Smoke On the Water con la chitarra elettrica, perché lui l’aveva concepito con l’acustica. E questo lo si vede in Made in Japan, anche nel documentario stesso di Sky Arte. E questo mi porta alla seconda risposta. Un altro docufilm da non perdere è quello su USA for Africa, perché penetra proprio l’ego e gli stati d’animo di quegli artisti che erano i più importanti di quel momento storico. Sugli album, per un discorso tecnico musicale di scoperta e cambiamento, prenderei in considerazione Abacab dei Genesis e Tarkus degli Emerson Lake & Palmer, forse perché mi ci fissai proprio da adolescente. Mentre nel pop, sia a livello emotivo che sonoro, per me Una donna per amico di Battisti rimane uno dei più grandi album della storia italiana, con dentro una filosofia innovativa e un impegno gigantesco da parte di tutti quelli che hanno partecipato alla sua realizzazione.