Interviste

Interviste di Redazione | 01-06-2022

Saturnino: il Bassista e il Suo Tempo

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Saturnino: il Bassista e il Suo Tempo

Quando si parla di 4 corde, pochi musicisti italiani possono essere considerati influenti quanto Saturnino. Abbiamo chiacchierato con lui di vita da bassista in tour e in studio

Saturnino Celani, classe ‘69 da Ascoli Piceno, è tra i bassisti più noti e apprezzati in Italia negli ultimi 30 anni. Il suo nome è indissolubilmente legato all’amicizia e alla lunga collaborazione con Lorenzo Jovanotti, che ha portato alla nascita di hit come Serenata Rap. L’ombelico del mondo, Safari, Baciami ancora e tantissime altre. Al di là di questo connubio, il Satu ha prestato le sue dita e la sua anima sospesa tra funk, jazz e rock a tantissimi tour e produzioni discografiche che hanno segnato la storia recente della musica italiana. Per questo abbiamo pensato di intervistarlo, per parlare di attualità musicale, eventi più o meno grandi che ripartono e vita da musicista oggi.

Ciao Saturnino e benvenuto su SMMAG!. Partiamo dall’estate 2022. Torna il Jova Beach Party, con lo slogan Ri-Party-Amo. Voi che siete i protagonisti sul palco avete quasi la sensazione che quest’anno ci sarà finalmente il vero ritorno allo status quo ante, al pre-Covid, anche per gli eventi molto grandi?

Quello che io sto notando è che c’è un desiderio molto forte per questo ritorno. Quasi si brama il tornare a ballare, sudare, abbracciarsi e condividere la musica. Ad esempio, quello che è successo al Teatro Nazionale [si riferisce al concerto di fine maggio al Teatro Nazionale di Milano insieme ai Negrita e ai BSBE per l’Ass. Laura Coviello contro la Leucemia, Ndr] mi fa ben sperare in tal senso. Devo essere onesto, detesto un po’ il “suonare dalle camerette”. In cameretta si suona per preparare magari un progetto da realizzare, ma la musica non nasce per rimanere lì. La musica nasce per desiderare in cameretta e andare poi a suonare dal vivo. Mi sono reso conto con mio grande piacere che non era auspicabile un futuro della musica live in streaming.

Stando alla tua esperienza c’è molta differenza tra il suonare nel contesto di un format particolare come il Jova Beach Party e il fare invece un normale tour estivo?

Quando prepari un tour non fai altro che lavorare sul tuo repertorio e scegliere tra i pezzi che lo compongono.

Quando prepari il Jova Beach Party, invece, lavori su una sorta di esperienza multi-sensoriale per portare la musica in un posto dove farla dal vivo è molto complesso. E crei una specie di colonna sonora che ti accompagna dal primissimo pomeriggio fino a tarda notte. Quindi, a differenza del concerto - definiamolo - tradizionale, si propone un’esperienza che, nel momento in cui la vivi e condividi, ti rende, in un certo senso, una “persona migliore”. A me è capitato, dopo il concerto di Lignano, di incontrare un sacco di persone che manifestavano la loro gioia per aver vissuto un’esperienza del genere. 

Così come ripartono senza limitazioni i mega-eventi, sicuramente quest’estate ci sarà nuova linfa vitale anche per i festival locali. C’è un evento che ricordi come particolarmente importante durante la tua “gavetta”?

Be’ non potrei senz’altro mai dimenticare il primo concerto a cui ho assistito, nel quale suonava il gruppo che faceva le feste di piazza nel quartiere Tofare. All’epoca ero il ragazzino che si metteva dietro il palco per vedere suonare il batterista. Al secondo concerto mi son messo a osservare invece il bassista e l’ho voluto anche conoscere per acquisire le prime nozioni su quello strumento meraviglioso che mi accompagna ormai da quasi cinquant’anni. Fu il primo evento scatenante. Poi, da allora, ogni concerto che ho visto e fatto ha avuto un suo impatto su di me e sul mio modo di suonare. È inevitabile che accada questo ed è bellissimo, perché io prima di tutto nasco fan ascoltatore. Poi mi evolvo in esecutore e performer. All’inizio, però, si procede solo per modelli imitativi.  

Nel 2016, Netflix ha dedicato ai session men un documentario dal titolo “Hired Gun”. Intanto ti rivedi in questa formula di “pistola a noleggio”? E com’è il percorso di un session man in Italia? Come si arriva alla reputazione di “bassista da chiamare per quel disco lì”?

Mi piace il termine “pistole a noleggio” e mi piace sentirmi dire “se chiami lui, è un killer”, perché ti considerano una persona dal sangue freddo, che porta subito il risultato. Il discorso del “bassista da chiamare per quel disco lì” nasce dal fatto che, quando entri in studio, non consegni solo il suono, ma porti anche la tua anima e la tua energia. Quando qualcuno ti chiama, vuole esattamente quello. Ora, io sono il primo a dire che è importante farsi pagare per quello che uno fa, però, a me è anche spesso capitato di registrare cose pro bono, perché se ti piace davvero un progetto, allora ci tieni a esserci. La riconoscenza poi appartiene al singolo che può darti merito di aver magari apportato qualcosa di davvero bello e importante. Ad esempio, l’ultima situazione a cui ho collaborato risale all’altro ieri, quando ho registrato il basso nell’ultimo singolo di Gianni Morandi scritto da Lorenzo, qualcosa di fantastico. Per quanto riguarda, invece, le produzioni esterne, l’ultimo progetto in cui sono stato coinvolto è quello per il nuovo album di Nina Zilli e, in studio, ho lavorato con Danti. Il che è proprio una meraviglia perché passare un giorno a registrare, nel loro studio, con Danti e Biggie Paul è davvero una gran figata. È un posto magico alla Maggiolina, ed è nient’altro che il basement di una casa. Mi piace un sacco che gli studi ormai son diventati quasi tutti “casalinghi”. Magari poi si fa il mix da un’altra parte, ma è bello che si creino dei luoghi intimi per registrare. Quello che mi piace fare, in studio, infatti è perdermi. Non voglio sentire il tempo che passa, perché si sta così bene in questo posto che, per definizione, è isolato dall’esterno. Tornando alla tua domanda, come si diventa session man. Io penso sia importante e consiglio sempre di conoscere un po’ la storia. Penso, ad esempio, nel caso di un bassista, a Jimmy Jamerson, che ha registrato il basso per la maggior parte dei dischi della Motown, ma anche alla storia dei Toto. C’è un bellissimo aneddoto raccontato dal mitico Jeff Porcaro, che il cielo lo abbia sempre in gloria, al quale capitò di registrare un brano senza essere pagato e per il quale perciò gli diedero delle piccole royalties. E quel brano, al quale aveva voluto collaborare senza pensare assolutamente al lato economico, è finito per diventare uno di quelli che hanno reso di più.

C’è una sorta di karma musicale che ti premia…

Sì, condivido in pieno, è esattamente questo! 

Nonostante le tue collaborazioni, dal ‘95, con Testa di Basso, hai iniziato anche il tuo percorso da solista. È stato complicato trovare una strada tutta propria o è stato quasi “catartico” nel tempo per te?

All’inizio fui fortemente incoraggiato da Lorenzo che, prima di un viaggio aereo, mi disse “secondo me dovresti fare un album da solo e c’ho già il titolo”. Quel titolo infatti è suo. Credo ci debba essere un forte desiderio alla base, quasi un’urgenza. Non c’è bisogno di dischi nuovi, quanto piuttosto di sensazioni nuove. Non bisogna cioè avere paura di fermare nel tempo, come quando si fa una foto, un’idea che tu hai, che sia strumentale, che sia una canzone, che sia uno slogan, qualsiasi cosa. Non si deve aver paura di esternarlo e fermarlo. Perché la cosa figa oggi è che ognuno può pubblicare qualsiasi cosa. Quindi se sei il primo a crederci, non servono cose incredibili o fuori dal mondo. Oggi se hai un’idea, in quarantotto ore può fare il giro del mondo. Vedi, ad esempio, il singolo This is America di Childish Gambino il cui video, in due giorni, fu condiviso in via organica in tutto il mondo.

Qual è il tuo rapporto con i gear? Sappiamo tutti più o meno quali bassi utilizzi sul palco ma ci piacerebbe sapere se sei uno che “dietro le quinte” prova molti strumenti?

Il mio rapporto è sempre di grande curiosità, legata quasi sempre alla segnalazione di qualcuno. Per esempio, sono un grande fan di Scott Bass, un ragazzo che posta tantissimi contenuti interessanti sul mondo del basso e anche di Fernando Rosa, di cui tutti mi fanno un gran parlare, senza sapere che in realtà io e lui ci seguiamo a vicenda dall’aprile del 2020. Quindi rimango sempre attento alle novità, senza perdere l’interesse per gli aspetti un po’ più classici. Ho strumenti che possono essere considerati vintage, anche perché banalmente li ho comprati qualche anno fa, li posseggo ancora e, per così dire, nel frattempo sono diventato vintage anch’io con loro. Se ho un Ken Smith acquistato nel 1990, ora quel basso chiaramente ha un’età. Siamo diventati vintagissimi. Ma un’altra cosa che mi caratterizza è l’essere un vero fanatico della manutenzione. Per me gli strumenti sono come le armi, se non sono perfettamente tenuti, non servono a niente. Lo strumento può essere vintage e strafigo quanto vuoi, ma contemporaneamente dev’essere con l’action, le corde e l’elettronica tutte perfette. Con le “pile cambiate” e sempre pronto all’uso. Ricordo di un famoso backliner qualche anno fa - l’ho raccontato anche nel mio libro - durante un tour con Eros Ramazzotti e Pino Daniele, che, quando vide la mia prima pedaliera, mi disse “ma questa cos’è? Dove vuoi annà con questa?”. Questa cosa mi fece capire che, se vuoi essere un pro, lo devi essere in tutto. Perché anche quello fa la differenza. Non ho mai creduto in quelli vestiti benissimo e con gli strumenti di m*rda, e viceversa. Se arrivi a un concerto e hai gli abiti firmati da uno stilista pazzesco e poi suoni con le cuffie da 20 €, sei un cogli*ne per me, non sei un pro. Anche perché, se hai quelle cuffie lì, o canti come Michael Bolton o te ne devi annà a casa. Poi magari gli senti dire al fonico “non sento”. E grazie, hai le cuffie che costano quanto le patatine! Non devi sentirti scemo se spendi 3.500 € per una coppia di in-ear, perché ti servono. A volte, dei musicisti che vengono a casa mi dicono sorpresi “che belle casse che hai”. Ma dovrebbero stupirsi se fosse il contrario. Ho una coppia di Klipsch con un amp Macintosh, faccio musica, per cosa dovrei spenderli i soldi? Per la macchina, per l’arredamento di design? I soldi per gli strumenti, per i biglietti dei live e per gli impianti per ascoltare musica sono i soldi spesi meglio nella vita, garantito.

Proprio qualche giorno fa ho visto una tua diretta Instagram sull’argomento biglietti e “omaggi”. Volevo approfittarne per chiederti se i social hanno dato qualcosa in più alla tua vita professionale e personale?

Partirei con il dire che la fan base è formata da persone che seguono veramente quello che fai e che, se organizzi qualcosa, ti sostengono, acquistando un biglietto o qualcosa dal merchandising o interagendo con i tuoi contenuti. Perciò, se tu hai venduto 30 milioni di dischi, puoi ben dire di avere 30 milioni di fan. Se tu hai 30 milioni di follower, non hai niente in mano, perché non puoi dire a ognuno di quelli di versare 1 euro sul tuo conto. Un po’ tutti i Paesi del mondo in generale, ma particolarmente l’Italia, certificano ormai degli esseri umani assolutamente inesistenti da qualsiasi punto di vista presentandoli anche sui media nazionali come “quelli che hanno 30 milioni di follower”, come se questa cosa significasse qualcosa. Ma quello non è assolutamente un valore, anche perché tu puoi avere anche 30 milioni di imbecilli che ti seguono. Personalmente ho 160.000 follower, ma se vado a vedere i numeri dei miei brani su Spotify, ho magari 50.000 stream su un pezzo. Quindi non l’avranno certo ascoltato tutti quelli che mi seguono. Per non parlare di chi compra i follower, ce li ha finti e si crogiola sul fasullo.

Esattamente come chi va in giro con la Rolls in affitto, è tutta una questione legata alla percezione che uno ci tiene a trasmettere di sé. Molto semplicemente non si dovrebbe seguire o dare attenzione a un cantante perché ha un largo seguito su Instagram. Prima ascoltiamo la canzone! Quando hanno presentato Bob Marley, di certo non hanno detto “Ha 50 milioni di follower”, hanno semplicemente detto “Ecco a voi Bob Marley”. Un’altra cosa che non capisco è quando sento dire “se non suoni a San Siro non sei nessuno”. David Byrne io l’ho sentito al Teatro Arcimboldi di Milano e ha fatto un concerto clamoroso. Non a caso, è ancora in tour dopo 3 anni. Evidentemente non ha bisogno di riempire lo stadio con 80.000 persone per dimostrare qualcosa. A me poi diverte molto parlare di queste cose. Sul mio profilo Instagram, il video più visto è quello in cui suono in playback una cover di un pezzo di Mark Knopfler. Poi posto un live fatto coi Negrita e, magari, non frega un c*zzo a nessuno rispetto al playback. Rendiamoci insomma conto di come sta messa la gente. Tra l’altro, spesso, quando posto qualcosa noto che ricevo visualizzazioni da gente che non interagisce nemmeno se muoio. Anzi forse solo se muoio, perché i like postumi sicuramente sono sempre tantissimi. Semplicemente non vogliono darmi soddisfazione! (ride, Ndr)