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Interviste di Redazione | 01-08-2024

Alex Britti: un “Onnivoro” Musicale

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Alex Britti: un “Onnivoro” Musicale

Chitarrista e cantautore tra i più influenti del panorama italiano negli ultimi trent'anni, Alex Britti si è raccontato tra tour e ultimi singoli, il rapporto unico con il suo strumento e il suono, la ricerca del Santo Graal nell’affollatissimo mondo degli overdrive.

Partiamo dall’attualità: dal tuo tour. Che tipo di scaletta e live show hai costruito per l’Alex Britti Live 202?

C’è un po’ di tutto del mio repertorio, dal primo disco fino agli ultimi singoli usciti. Cerco il giusto balance per accontentare tutti. So di avere un pubblico a cui piacciono le mie canzoni, i brani più famosi, che viene per vivere una sorta di revival, ma anche un altro che viene per la chitarra. Perciò sono attento a non fare solo canzoni, altrimenti scontento i musicisti, gli amanti della chitarra, e cerco di non riempire troppo di assoli e quant’altro, altrimenti scontento gli amanti delle canzoni. La particolarità del mio concerto è che quasi non è definibile in un genere musicale: è un concerto pop dal quale però la gente va via con la percezione di essere stata a un concerto blues, a tinte jazz, rimane quel sapore, perché il mio modo di suonare è quello, anche quando faccio canzoni. Ieri sera ho avuto un concertone, la gente è impazzita, erano caldissimi (si riferisce alla data di UdineNdr).

In questo tour torni a imbracciare una Fender sul palco...

Dalla fine del tour dell’anno scorso ho ricominciato a suonare la Stratocaster, e suono solo Strato, ne ho più di una ovviamente. È quasi un ritorno a casa per me: mi sono pagato affitto e bollette per 15 anni suonando la Stratocaster, poi ho iniziato a fare il cantautore, passando all’acustica e ad altre chitarre. Mi ha fatto bene viaggiare però, fare un po’ di anni tra Les Paul 355 e Diavoletto, a due humbucker, perché mi hanno fatto pensare alla chitarra e agli effetti soprattutto, in un modo diverso. Ho iniziato a usare effetti che non usavo prima e a discostarmi dal modello di Stevie Ray Vaughan.

Hai introdotto anche qualche novità a livello di strumentazione per questo tour? 

Io ho la pedaliera mutante: mi ostino nel cercare e introdurre sempre pedali nuovi, anche durante un tour. Compro effetti nuovi, li provo, sento come reagiscono e anche quest’anno sono partito con dei pedali e sono finito con altri. Ho sempre usato in pedaliera Tube Screamer, RAT e wah wah, li portavo con me anche quando non avevo la pedaliera, nello zaino da ragazzino montandoli ogni sera. Però, mentre ad esempio con i wah wah ho sperimentato, ne ho provati e ne ho tanti, ma alla fine ritorno sempre al Vox, quello di Hendrix e Stevie Ray insomma, con i drive sono alla costante ricerca del Santo Graal. Quest’anno ho trovato un pedale che è bellissimo e ha sostituito il Tube Screamer.

Non un compito facile questo... 

Sì, il Tube Screamer è bello, ma ha sempre quella ridondanza di medie e tende a mangiarsi un po’ gli estremi di gamma, che va bene ma non benissimo. Ho preso una copia del Klon Centaur - perché l’originale è bellissimo, ma non si possono spendere 4 o 5 mila euro per un overdrive, uno schiaffo alla miseria – prodotta dalla Warm Audio, che si chiama Centavo e suona da Dio, infatti ne ho preso anche uno di backup. E poi ho trovato un altro pedale, sempre nel mondo dei drive, anche questo in teoria una copia del Klon Centaur, ma con un suono decisamente diverso, più spinto, che mi piace un casino, l’Origin Halcyon. 

E come stai usando questi nuovi pedali live?

Il Centavo lo uso col volume a palla, i toni quanto basta, e il gain a zero, come usavo prima il Tube Screamer. È quel primo pedale per andare in solo, che io chiamo lo “strizzavalvole”: non cambia suono, lo lascia pulito e cristallino, ma, nel caso del Centavo, ti dà già quei 20db in più. L’altro invece lo uso con un filo di drive, tipo a 1,5 o 2, non alza troppo il volume, però ti dà un po’ di “cruncha”. In questo modo, se sto suonando e voglio un suono più alla Stevie Ray mi basta il volume aperto col Centavo, se invece voglio un suono più saturo, più spinto, come una distorsione, allora metto anche quell’altro, li uso insieme e viene un suono della Madonna. A fine brano devo sbrigarmi a spegnere, sennò sotto si sente un bel po’ di sana sporcizia. E poi c’è il Fuzzface, che io chiamo “il fragolone” perché è rosso e rotondo, ed è fatto con i contatti in germanio, quindi suona morbido, più cremoso e dinamico rispetto ad altri fuzz più zanzarosi. Il Centavo lo uso col pick-up al manico, se accoppio Centavo e Origin pick-up al centrale, Fuzz+Centavo li uso col pick-up al ponte. Perché più è saturo e più si scurisce, sporcandosi e perdendo attacco. Quindi più saturo e più scendo verso il ponte. È una bella soluzione, mi trovo bene.

Vorrei parlare del tuo ultimo singolo, Uomini, che è un po’ un pastiche contaminato di generi. Come sei arrivato a concepire questo tipo di hit estiva?

Non è che pensi molto al tutto, vado abbastanza a istinto. Stavo giocando con un ukulele e un guitalele, mi andava di avere quel tipo di atmosfera e leggerezza, e quindi è uscita “Uomini” con il suo gioco armonico. Ho aggiunto un cavaquinho che ho trovato campionato e mi sono lasciato stimolare dai suoni come sempre. Non decido a tavolino dove andare e cosa fare.

È una nota istintiva che ti è rimasta e che hai sempre avuto in fondo... 

Sì, in prima battuta, mi piace reagire senza pensarle troppo. La scelta magari interviene dopo; però al momento di creare niente barriere. Essendo onnivoro nell’ascolto, mi ritrovo poi a esserlo in produzione, mi piace spaziare e prendere da ogni genere, essendo io il comune denominatore che dà lo stile e la riconoscibilità. Anche nelle ultime cose, “Uomini e “Supereroi”, c’è un filo conduttore anche se apparentemente sembrano cose molto diverse.

Uomini è un racconto di quello che siamo come genere maschile oggi tra nuove libertà espressive, mondo social, ecc. Forse alcuni musicisti nel nuovo contesto sentono quasi l’obbligo di popolare le nuove piattaforme che magari non sono per inclinazione personale nelle loro corde.

Dipende, io sono tra quelli che il digitale l’hanno visto arrivare e non ci sono nati, però i social continuo a ritenerli un gioco. Anche se poi sono diventati un mezzo di comunicazione e quindi forse gioco non lo sono più. Per chi ha un bel seguito fare un post e una storia sui social equivale a un passaggio televisivo e oggi forse ti vedono più sui social. Io cerco di prendere sempre il buono, poi è chiaro che il problema non è tanto nei social quanto in chi li usa, in tutti gli stupidi che fanno e scrivono idiozie. Una pistola da sola non spara: per quanto sia un’arma e quindi non vada bene, devi impugnarla e avere l’intenzione di fare danni. I social sono una figata, ma purtroppo sono pieni di imbecilli che li usano in un modo strano. Personalmente ci faccio comunicazione, ci gioco un po’ e chi mi conosce sa che, quando sono più presente sui social, vuol dire che sto viaggiando molto in treno e in nave e quindi mi annoio. L’importante è non intripparcisi e non credersi troppo. Instagram lo trovo ancora divertente e ho un rapporto sano con la fanbase, che è fatta di gente in generale molto carina.

Guardando un po’ al passato, puoi raccontarci del tuo rapporto con Edoardo Bennato e di come si è arrivati alla vostra collaborazione, poi culminata con una delle hit italiane più interessanti degli ultimi 30 anni? 

Fu lui a cercarmi, a trovare il mio numero e a chiamarmi personalmente, dicendomi “Ti conosco per le canzoni, ma mi hanno detto che sei fortissimo a suonare la chitarra. Perché non ci vediamo e suoniamo insieme?”. E io ho detto sì, così ci siamo conosciuti a Roma, ho fatto qualche brano in concerto insieme a lui, dopo esserci visti il pomeriggio. Da lì abbiamo cominciato a frequentarci, semplicemente in amicizia: ci si vedeva  sia con le chitarre che magari solo per farsi una bistecca o una pizza. A forza di frequentarci, perché ci ospitavamo sempre a vicenda nei nostri concerti a Roma e Napoli, le agenzie ci hanno proposto di approfittarne per fare qualcosa insieme. Noi abbiamo preso subito la palla al balzo, abbiamo scritto Notte di Mezza Estate”, e con una band unica ce ne siamo andati in giro tutta l’estate, una trentina di concerti divertendoci come pazzi.

C’è qualche giovane uomo di blues o in generale qualche musicista, a cui tu passeresti un po’ il testimone in Italia, con un rapporto come quello che hai avuto tu con Edoardo appunto?

Non lo so perché, se devo pensare ai cantanti di oggi, non mi viene in mente nessuno che suoni anche. Sicuramente chi canta e basta ha un rapporto diverso con la musica rispetto a quello che possiamo avere io, Edoardo che suona l’armonica, o che potevano avere un Pino Daniele o un Ivan Graziani. Quando penso a Mahmood, Achille Lauro o altri cantanti che vediamo in classifica, non mi sembra di riconoscere un forte binomio cantante-strumento musicale.  

Che rapporto avevi con la strumentazione quando eri ragazzino e dovevi ancora trovare magari la tua dimensione?

Alla fine con un po’ di sforzo, ottieni sempre tutto. Anche perché io non sono stato mai uno da chissà quale strumentazione, soprattutto sugli effetti. Una Stratocaster, bene o male la trovi dai, anche se non guadagni tanto, te la puoi permettere. Magari non le Custom Shop che ho oggi, però io ho suonato per tanti anni una dignitosissima Fender giapponese. Non c’erano poi tutti i modelli di oggi: c’era la Fender Stratocaster punto. E poi hanno iniziato a fare le Squier e c’erano le giapponesi che erano una via di mezzo tra una Fender americana e una Squier. La mia la comprai nell’84, nuova di pacca, mi innamorai subito del suo colore rosso, ed era un traguardo raggiungibile. Poi avevo un amplificatore valvolare Fender, ne ho avuti diversi nel tempo e tuttora ne uso uno. Non mi sono spostato molto. Ho cercato sempre di pensare più a imparare la chitarra che agli effetti. Salgo sul palco, mi attacco, alzo a palla e suono. Punto. Mi hanno insegnato così. Negli anni ‘80, nei locali in cui suonavo, ti dovevi sbrigare a riprendere la strumentazione dopo il live. E io ci ho sempre messo 20 secondi. Tre pedali in un sacco e via. Per il reverb usavo quello dell’amplificatore, ho avuto uno o due distorsori, un wah wah e basta.

Questo con la Strato. Con le Gibson anche senza niente, spingono già di più con l’humbucking, quindi avevo sempre il volume sotto mano, con il clean a metà volume e poi su a palla senza pedali come Freddie King, B.B. King e un po’ tutti i bluesmen. A fine concerto nei locali preferivo perdere tempo a bermi una birra o a farmi due chiacchiere con qualche bella ragazza che c’era in sala.  Ho attraversato gli anni ‘90 senza mai avere i rack, che erano usati da tutti, vedevi i chitarristi con i “frigoriferi” accanto all’ampli. Fondamentalmente però non mi è mai piaciuto il tipo di suono che ottieni, troppo effettato. Non a caso poi quei chitarristi sono finiti tutti su Kemper, Helix e altri sistemi simili. E secondo me li usa chi poi alla fine non ha troppo interesse nel suono, ho l’impressione che li si scelga per comodità. Capisco questa necessità, ma io non potrei mai suonarci, non mi  interessa cambiare effetti per ogni canzone, non è il mio modo di pensare la musica. 

Per chiudere, ci consigli un live da recuperare e un disco da ascoltare?

Forse il concerto in cui mi sono divertito di più in assoluto è stato nell’88 quello di Stevie Wonder a Roma al PalaEUR. Blues, jazz, funk, tutta l’essenza della black music. Ricordo di aver ballato tutto il tempo. Ho bellissimi ricordi però anche di Stevie Ray, la prima volta che è venuto in Italia, a Perugia,  dei Police sempre al PalaEUR, di Santana, altro concerto magnifico. E poi ho avuto la fortuna di vedere Dizzy Gillespie a Roma con la All Stars Big Band, con gli arrangiamenti cubani, roba da perdere la testa. Dischi ti direi Electric Ladyland di Hendrix, un viaggio sperimentale pazzesco, ma anche Moonflower, disco doppio di Santana, e Still Life di Pat Metheny. Un altro disco che secondo me ha dato tanto a tutta la “blackitudine” che c’è negli ultimi anni, trap compresa, è il disco di D’Angelo, Brown Sugar, del ‘95. Un album che magari non fa storia, non lo cita mai nessuno, ma suona molto più moderno di un sacco di monnezza che gira oggi e ha dato il La a tanta roba.