Interviste

Interviste di Redazione | 01-01-2024

Albertino: "Suonare" è un po' come "Giocare"

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Albertino: "Suonare" è un po' come "Giocare"

Il dj è forse la figura che meglio incarna il ruolo di chi lavora con le creazioni altrui. Quali sono le caratteristiche che sono richieste per intercettare il gusto degli ascoltatori, ricorrendo però alle opere utilizzate dagli altri? Come si affina un gusto musicale capace di accontentare milioni di ascoltatori ogni giorno?

Io credo che scegliere la musica degli altri, come dici tu, sia proprio l’anima del mio mestiere. Fare una ricerca è la parte forse più divertente anche perché ogni volta è una scommessa. Ci sono molti che invece lavorano in radio e non selezionano personalmente i brani, ma hanno un ufficio di programmazione, io invece lo faccio sia per la radio che per i miei set in club o festival. Per cui, come si fa? Io non credo che esista un metodo o un corso, credo che sia un’attitudine, una dote, soprattutto bisogna saper coniugare ciò che piace a te con quello che piace agli altri. A volte le due cose non corrispondono perché magari il mio gusto personale, come Alberto, è decisamente più raffinato rispetto a quello per cui la gente mi conosce o rispetto a quello che io scelgo, soprattutto per la radio, che deve arrivare a una massa, a un pubblico molto ampio. Però, appunto, bisogna tenere conto della destinazione della canzone e del brano che viene selezionato. Nel mio caso, che sono un conduttore radiofonico, diciamo "pop" devo cercare di individuare delle canzoni che poi diventino delle hit. Questo è l’obiettivo principale. E farlo prima degli altri, perché la chiave è lanciare il successo. Io non aspetto che una canzone diventi una hit per programmarla, io la faccio diventare una hit. Metto Anna, Anna non ha ancora un contratto con la Universal. Metto Ghali, Ghali non è ancora famoso. Questo è il giochino. Credo che per riuscirci serva orecchio, intuito. Diciamo che uno che lo sa fare lo fa in maniera istintiva in pochi secondi. 

Quindi dettare dei trend come hai fatto tu negli ultimi trent’anni è solo una questione di istinto, di spontaneità? 

C’è anche una parte di curiosità, osservazione, monitoraggio di quello che accade, osservare i trend a tutti i livelli perché poi dal basso partono spesso le cose. E sono come un amplificatore di queste cose che magari ho intercettato. Molto spesso mi è capitato di ascoltare un brano, per esempio, in un’altra nazione e poi sono venuto in Italia e l’ho amplificato attraverso il medium. Si tratta di tenere insieme queste cose.

La capacità di reggere così per trent’anni è una cosa più tua, quindi. 

Non vorrei autocelebrarmi ma, come dicono a Milano, teniamo botta! Ma a me piace, non ho la smania di voler essere sempre il più bravo, il più bello, il più famoso. Ho iniziato a fare questo lavoro per l’amore per la musica e la fortuna vera è che sono riuscito a scoprirlo in giovane età, quindi mi sono ritrovato con una bella esperienza già poco più di vent’anni. Riuscire a farlo a certi livelli per tutto questo tempo è una delle cose di cui sono più orgoglioso, però lo faccio, mi piace finché non mi stuferò. Cosa c’è di più bello che stare in mezzo alla musica? Tutto sommato non è poi tanto pesante.

Il grande critico musicale Simon Reynolds, per riferirsi a campionamenti e basi provenienti dal passato, parlava di “sedute spiritiche”, come se riprendere la musica di chi ormai non c’è più artisticamente o biologicamente fosse un modo di tenerlo o riportarlo in vita. Come si fa a mantenere vivo e vibrante qualcosa che vivo non è più?

È un lavoro che richiede un grande impegno. Far rivivere, oppure addirittura usare un sample e rimanipolarlo rendendolo quasi irriconoscibile è ancora più difficile. Quindi, sì, ci sono due aspetti positivi. Uno, dare una continuità a un brano che altrimenti sarebbe morto e due, l’aspetto artigianale, quasi di patchwork che appartiene molto al nostro mondo, al mondo dei dj, producer e al mondo dell’hip hop, che se vogliamo inizialmente era nato come un’arte povera perché chi non aveva i soldi per andare in studio prendeva un pezzo di altri e lo rimodulava, era un metodo usato anche da chi non aveva qualità da musicista. Io, ad esempio, non ho qualità da musicista, però conosco moltissima musica del passato, prendo un riff di una canzone di tanti anni fa, la metto su una base elettronica e ci faccio una hit moderna. Inoltre, oggi stiamo vivendo in un periodo in cui ci sono solo cose rifatte, quindi la cosa più nuova è una cosa degli anni ‘90.

Hai anticipato due temi che avrei voluto affrontare, partiamo dal primo: hai detto di non avere doti da musicista, ed effettivamente in passato i detrattori della musica elettronica usavano le virgolette quando si accostava alla figura del dj il verbo suonare. Secondo te oggi la vostra è ancora vista come una pratica musicale di serie B?

Secondo me no, perché comunque anche al di là di qualche episodio o di qualche gruppo che fa la differenza, le vere rock star a livello mondiale sono i dj, quindi direi che non si tratta di serie B! Invece io avrei qualcosa da ridire sul verbo che noi abbiamo trovato in Italia per motivare il nostro mestiere. Gli inglesi usano play, i francesi usano jouer, che comunque in entrambi i casi è molto più modesto, giocare. Gli spagnoli dicono pinchar, spingere dei tasti, noi usiamo suonare che io trovo al limite del presuntuoso e anche poco rispettoso per chi sa suonare veramente, cioè nei confronti di un musicista che magari ha fatto il conservatorio. Anche se poi non diamo per scontato che mettere insieme della musica con la tecnologia del momento sia poi così facile per tutti.  Magari per noi lo è perché è come andare in bicicletta; c’è del lavoro, però suonare è un po’ troppo. 

L’altro tema che avevi introdotto riguardava gli anni ’90. Quello è stato il decennio in cui tu hai mosso i primi passi e oggi si respira una nostalgia verso quel periodo che sembra essere il leitmotiv di tutte le nuove produzioni musicali, cinematografiche, televisive ecc. Come giudichi, questa voglia di passato? È più un’idealizzazione di un tempo che non c’è più, oppure c’è una difficoltà effettiva a uscire da un’impasse creativa? 

Credo un po’ l’insieme di tutte queste cose. In quegli anni c’è stata un’esplosione senza precedenti in Italia per la figura del dj. Non credo che ci sia nessuno che abbia fatto le cose che ho fatto io in quel periodo, sia alla radio che come teen idol; ho riempito palazzetti quando ancora la figura del dj non era così affermata. Non dimentichiamoci però che quel mondo e quella community che mi seguiva era considerata, quasi con disprezzo, commerciale appartenente a un mondo di serie B, come successe con la disco music degli anni ’70. Però proprio come la disco, che poi anni dopo è stata riabbracciata, sta succedendo oggi con la musica di trent’anni fa. Io ci aggiungerei che c’è un grande vuoto di cose originali, nuove. Avverto una mancanza di creatività e quindi si va a ripescare molto (forse troppo) da quel decennio. Inoltre stiamo vivendo un periodo molto brutto, tra le guerre e la pandemia, e questo traspare anche dai testi della musica trap, forse il genere più ascoltato dalla Gen Z. Non lo dico da adulto che denigra i giovani, anzi al contrario, solo che non riscontro niente di nuovo e poi non so se hai notato che i testi delle canzoni sono molto tristi, il tono è triste, è un periodo storico triste, e i ragazzi ne risentono, si picchiano, vivono sui social, non ci sono più luoghi di aggregazione. Gli anni ‘90 invece rappresentano la felicità, la gioia, la voglia di uscire e conoscere il mondo. Oggi conta di più questo acting, da finto gangster, finto cattivo, finto essere quello che si tromba tutte e chissà quanto c’è di vero… La cosa buffa, poi, è che il loro target si stufa molto in fretta, appena diventano un po’ più grandicelli, capiscono e mollano. Io sono molto attento al mondo dei giovani e secondo me solo dai giovani possono arrivare delle cose belle e nuove, perché è in quell’età che c’è la massima espressione della creatività. è accaduto sempre nella musica;  basti pensare ai Rolling Stones, ai Beatles, agli U2, ai fratelli Gallagher.

Un’ultima domanda più tecnica, perché mi sembri molto attento all’aspetto della strumentazione, tanto da aver sviluppato un tuo dj desk, e volevo sapere quali sono le tue esigenze quando ti devi esibire o quando sei dietro alla consolle o piuttosto che davanti al microfono. 

Le due situazioni sono completamente differenti, perché quando lavoro in radio ovviamente come strumento personalmente uso solo una cuffia BeyerDynamic molto chiusa e molto potente perché lavoro con un volume piuttosto alto. Per esempio, ho partecipato dal primo giorno alla realizzazione sia dal punto di vista estetico, acustico e tecnologico dello studio di M2O da cui trasmetto attualmente, e ho voluto essere presente in queste fasi embrionali proprio perché lavoro molto sulla compressione, sulla dinamica, sui volumi, rispetto alla voce. Mi sento un po’ un collaudatore, anche su Radio DeeJay l’ho fatto per anni perché ci tengo tantissimo, soprattutto perché io faccio un tipo di radio che è in via di estinzione, con tanta musica. Gli altri radio dj parlano molto di più e con volumi di musica molto bassi sotto la voce, io tengo sempre la musica molto presente, quindi ho delle esigenze diverse. Per quanto riguarda il club invece il mio setup è standard: uso Pioneer A9, quello nuovo. Di CDJ-3000 ne uso 4, una cuffia AIAIAI, niente di speciale. È fondamentale che tu sappia usare le macchine naturalmente. Queste rispetto ai Lenco che usavo negli anni ‘70 o ai Technics SL-1200, ti permettono di lavorare con molta più facilità, sono più intuitive, ti aiutano molto. è difficile sbagliare lavorando con i CDJ e le chiavette, il vero mestiere è capire da che parte stai andando, navigare un po’ a vista, capire se la gente si sta divertendo e la capacità di cambiare e andare nella direzione giusta.