Osservatorio
Cover Story #11: Nuovi Percorsi

Non più una novità, i social continuano a sorprendere con il gusto dell’inesplorato.?La ricerca di nuove singolarità musicali si è trasferita sulle piattaforme, dove gli artisti costruiscono le proprie fortune in maniera inedita. Quali musicisti emergono e quali arrancano?
Se potessimo per un attimo scattare una fotografia panoramica dei nostri account social personali nel biennio 2009-2011, quando Facebook era sulla cresta dell’onda nel suo utilizzo tra le fasce giovanili - mentre ora nella percezione collettiva è sempre più relegato in panchina, se non proprio in tribuna - cosa vedremmo? Al di là di qualche sfogo adolescenziale e di una pletora di utenti che parlano di se stessi alla terza persona singolare lamentandosi di esami e amori inconcludenti (cosa che ogni tanto i “Ricordi”, digitali e non, riportano a galla), cosa noteremmo?
Probabilmente, da amanti della musica, quello che ci colpirebbe di quel paesaggio digitale, sarebbe la quantità di link musicali ricondivisi sui propri “diari personali” (all’epoca si chiamavano così), il più delle volte sfruttando YouTube, all’epoca preso d’assalto dai caricatori seriali di musica non propria. Pirati più o meno consapevoli che fornivano alla comunità un servizio che gli artisti, le record label e le piattaforme stesse non si erano ancora strutturati a sufficienza per coprire. Un pattern, questo, che ha accomunato tutti i momenti di incontro/scontro e trasformazione tra musica e mondo online.
E quell’esercizio “abusivo” riforniva una forma primigenia di protagonismo espressivo, di auto-rappresentazione musicale che si sarebbe evoluta in poco più di dieci anni in maniera assolutamente imprevedibile, social network dopo social network, piattaforma dopo piattaforma, posizionamento dopo posizionamento. Una volontà collettiva mai sopita, di certo trasformata, per molti versi elevata all’ennesima potenza dagli sviluppi delle tecnologie informatiche e multimediali. E, per non passare per il boomer senza appello del caso, chi scrive non si spingerà oltre ad esplorare la civiltà rupestre dei social che è stata rappresentata da Netlog e Myspace.
Se comunque è vero, come canta De Gregori, che “la storia siamo noi, nessuno si senta offeso”, allora possiamo permetterci di affermare che, attraverso l’utilizzo quotidiano che abbiamo fatto della musica all’interno dei social, in questi anni abbiamo contribuito a plasmare tanto l’evoluzione delle app e dei siti che ormai ci seguono in ogni dove, quanto quella delle produzioni musicali che hanno popolato e popolano determinati luoghi digitali. E forse questo è proprio uno dei più evidenti cambiamenti portati dal mondo social a quello della musica e dello spettacolo: forse mai, prima degli ultimi vent’anni, si era avuta una così netta impressione che il successo fosse determinato dal basso, dall’utente finale. Certo, prima la riuscita di un pezzo si misurava in passaggi radio e dischi venduti, due metriche fondamentalmente in mano all’ascoltatore finale, ma la scelta a monte di cosa meritasse una chance nella bagarre era in mano ai discografici di mestiere. Ora quella stessa scelta a monte è degli algoritmi che governano le diverse piattaforme e, quindi, della loro capacità computazionale di riconoscere e premiare con la visibilità i contenuti e gli artisti che riscuotono maggiore apprezzamento e attenzione da parte degli utenti.
Certo, qualcuno potrebbe dire che l’algoritmo stesso è espressione di interessi privati e che diverse distorsioni del sistema sono state già portate alla luce in questi anni. Ma resta il fatto che tali interessi privati non sono quelli di chi fa business con la discografia, quanto di chi ha a cuore la permanenza degli utenti sul proprio social per potervi monetizzare attraverso gli spazi pubblicitari venduti (e quindi ha come primario movente economico quello di accontentare i gusti di quante più persone possibile). Ma, al di là dei legittimi dubbi che si possono avere, questo passaggio di consegne da quelli che sono gli attori e i media tradizionali dello spettacolo alla tetrarchia di Facebook. Instagram, Tik Tok e YouTube ha già portato con sé una valanga di mutamenti nelle possibili parabole degli artisti musicali.
Content is King, scrisse Bill Gates in una famosa e profetica lettera aperta del 1996 su quello che sarebbe stato Internet negli anni a venire. Mai come oggi e come nel contesto social quell’assioma è stato così vero. Solo chi sa creare contenuti, può procurarsi anche la visibilità necessaria a veicolare il proprio messaggio. Ma cosa vuol dire saper creare contenuti? In questo autunno 2024 - perché sì, tra qualche mese, la risposta sarà già diversa - vuol dire, in soldoni, saper creare video che non solo trattengano l’attenzione di una fetta di pubblico, ma anche inducano alla ricondivisione via messaggistica istantanea.
Ma non basta. Considerando infatti che, specie su TikTok, la creazione di contenuti procede per trend, ovvero ondate di modelli replicabili in serie potenzialmente da tutti gli utenti, saper creare contenuti vuol dire anche saper cavalcare i trend, essere sempre aggiornati e sul pezzo, magari lanciarne di nuovi. A questo punto, la domanda sorge spontanea, i musicisti sono anche content creator? I puristi affermeranno con forza no, forti del fatto che non può essere considerata “vera musica” quella che nasce solo per intrattenere pochi secondi, senza ulteriori ambizioni artistiche. Ma la risposta non è affatto così semplice e perentoria.
Innanzitutto, infatti, interviene l’evidenza dei fatti a smentire una chiusura totale. All’estero, come in Italia, esistono tanti creator di successo nella categoria musica.
Questo perché, innanzitutto, molti artisti musicali hanno inclinazione naturale e preparazione tecnica per creare contenuti interessanti con ciò che sanno fare meglio, che sia suonare, cantare, remixare, ecc. magari dalla propria cameretta. Non solo, però: i fatti dimostrano che, anche chi non ha come primario obiettivo in testa la viralità sui social, un concetto tra l’altro non davvero programmabile e perseguibile strategicamente, ha la possibilità di lanciarsi o ri-lanciarsi grazie a contenuti esplosi per popolarità grazie all’algoritmo. Parliamo di chi magari ha già trascorsi importanti sui palchi o di chi è inserito in un più complesso contesto band o magari è un emergente e si sta muovendo attraverso le prime uscite discografiche.
Nel nostro Paese, nel corso del 2024, ha fatto clamore il caso di Serena Brancale, un’artista che la critica musicale italiana conosceva già molto bene per il suo talento e per le sue produzioni jazz e soul che le erano valse la partecipazione a Sanremo nel 2015. E poi boom, a febbraio 2024, un reel girato nell’abitacolo di un’auto con il fingerdrummer Dropkick ha reso più di quanto avrebbe mai potuto fare qualsiasi promozione discografica tradizionale. Dalla viralità, subito la scelta più sensata: il tour omonimo primaverile-estivo, Baccalà On Tour, per monetizzare l’esposizione mediatica clamorosa ricevuta sulle piattaforme. Ferro battuto comprensibilmente finché caldo, mentre si procede per singoli e prima di dare forma a una pubblicazione discografica di maggior respiro.
Guardando oltre i confini nazionali, i casi si moltiplicano. C’è per esempio il caso di Steel Beans, al secolo Terry DeBardi, un 35enne della contea di Snohomish, nord-est di Seattle che è diventato quella che gli americani amano chiamare “internet sensation” in una notte, grazie al suo modo unico di essere one-man band. A settembre 2022, infatti, dopo quindici anni rasentando l’anonimato come solista e membro di gruppi locali, un suo reel lo ha portato a passare da circa 1.000 a quasi 200.000 follower in meno di 24 ore. Come ha fatto? Con un video in scantinato di 66 secondi, suonando contemporaneamente la chitarra e una batteria Ludwig, cantando un suo inedito, in vestaglia aperta e occhiali da sole. Così, prima ancora che la gente imparasse a conoscere il titolo del pezzo di quel reel, la carichissima Molotov Cocktail Lounge, Steel Beans era già entrato nell’orbita di grandi nomi della scena rock e metal a stelle e strisce. Passando dai pub di Everett a “gruppo spalla” per Tenacious D e Tool.
Se torniamo indietro di un po’ di anni, anche i Vulfpeck hanno costruito gran parte della loro popolarità e iniziale community attraverso tutta una serie di contenuti video sulle piattaforme che mostravano la qualità e l’unicità delle loro esibizioni. E fu proprio quello zoccolo duro di community a rendere possibile quel colpo di genio che è stato Sleepify, l’album di 10 tracce silenziose del marzo 2014, che la band invitò tutti i propri follower a riprodurre in loop di notte su Spotify, con l’obiettivo di raccogliere i fondi per un tour con date gratuite. Risultato? In un mese (ad aprile Spotify ritirò l’album per violazioni delle policy e, a partire da quell’esperienza, cambiò il suo modello di calcolo delle royalties), la band aveva già raccolto 20.000 $.
Ma anche oggi, se si è riconosciuti dall’algoritmo come appassionati di musica, capita più volte all’anno di imbattersi in contenuti sulla strada per la viralità. È il caso, per citarne altri, degli High Fade, band scozzese dal look e dal sound un po’ seventies, che con il loro funk rock con spruzzate di Rory Gallagher e il video della loro esibizione da busker in strada di Burnt Toast & Coffee, datata 2023, sono arrivati a superare le 10 Mln di visualizzazioni in pochissimi mesi tra Instagram e Tik Tok. Numeri che anche loro hanno deciso di reinvestire per la produzione di un tour tra Regno Unito e Stati Uniti. Mentre l’album, ormai atteso da più di un anno, arriverà solo a fine novembre 2024.
Il pattern di questi nuovi percorsi è insomma chiaro: video virale su uno o più social, produzione di un tour, reinvestimento dei guadagni del tour su una produzione in studio di maggiore ambizione, ma con comodo e non a tutti i costi. A essere premiati, al momento, sono soprattutto i virtuosi degli strumenti e chi, per un motivo o per un altro, buca lo schermo mentre si esibisce. Non pervenuti o quantomeno rappresentati statisticamente in maniera molto meno rilevante sono forse i cantautori, gli scrittori e interpreti di canzoni nel senso nostrano del termine. Questi hanno bisogno di maggiore attenzione e tempi più dilatati di un singolo clip video di 1 minuto, probabilmente, per lasciar passare il proprio messaggio. Un peccato, forse. O magari una fortuna, perché la ricerca di una certa estetica e sensibilità è ancora diffusa anche nelle nuovissime generazioni. E allora i percorsi si moltiplicano ancora, le strade anche lontane dai social continuano a essere battute e illuminate.
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