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Osservatorio di Redazione | 01-06-2022

Learning to Walk: Ripartire da Festival e Territori

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Learning to Walk: Ripartire da Festival e Territori

Partiamo da un assioma: esiste un’intima, quasi mistica connessione tra la musica e i luoghi. A chi ha un minimo di sensibilità e orecchio, ascoltare una Sittin’ On the Dock of the Bay non potrà che portare alla mente le sensazioni uniche e irripetibili di una giornata passata a godersi i colori, i profumi e le sensazioni di un paesaggio costiero. Tra l’altro, senza scomodare Otis Redding o altre dozzine di possibili esempi illustri, è facile accorgersi come, senz’ombra di dubbio, il rapporto tra suoni e spazi geografici vada ben oltre l’impatto emozionale o l’ispirazione di una canzone.

Innanzitutto i luoghi sono fatti di persone, artisti e professionisti, che si frequentano, collaborano e influenzano inevitabilmente il sound della musica che vi viene prodotta. Si pensi alla Seattle Scene degli anni ‘90 o alla “scuola” del cantautorato romano (Baglioni, De Gregori, Venditti e tutti quelli venuti dopo di loro). La musica, d’altro canto, contribuisce a modellare e connotare determinate città o regioni da un punto di vista culturale. Per tutti, negli Stati Uniti, New Orleans è “the Birthplace of Jazz”, Memphis la città del Re, Elvis Presley, Chicago la “dolce casa” del Blues, e così via. La musica è l’anima di una città e a ogni comunità locale corrisponde una determinata cifra stilistica sonora. Proprio in virtù di queste corrispondenze, chi si occupa di marketing territoriale ha potuto nel tempo integrare e impacchettare nell’offerta legata a determinati luoghi anche una sostanziosa fetta di “turismo musicale”, con tanto di locali o teatri musealizzati, visite guidate alle case delle celebrità e musei tematici. Si tratta di una forma di turismo sicuramente lodevole, nella misura in cui racconta ai visitatori la storia di una relazione, di un rapporto consolidato, ma anche, a ben vedere, piuttosto superficiale.

L’esperienza che si offre, infatti, non è troppo dissimile da quella che in fondo si trova nei parchi giochi. Il divertimento e la soddisfazione di trovarsi nel luogo in cui, ciò che già si conosce e si ama, ha preso in qualche modo forma. A voler provocare, quasi una forma di “feticismo musicale”.

Se si vuole comprendere fino in fondo quanto la musica sia importante per lo “stato di salute” delle comunità locali, occorre compiere un passo ulteriore e portare la conversazione in un’altra direzione. Per farlo dobbiamo puntare l’attenzione su un format, quello dei festival musicali, e sull’attuale congiuntura positiva che li riguarda, grazie alla ripartenza - finalmente senza sostanziali restrizioni - della rete di eventi radicati sul territorio e che arricchisce il tessuto sonoro del nostro Paese.

Senza voler avere la pretesa di fare un elenco degli appuntamenti musicali più importanti della bella stagione 2022, qui si vuole raccontare, attraverso pochi casi presi a mero titolo di esempio, la storia del rapporto tra festival e dimensione locale.

Se infatti l’Italia è conosciuta nel mondo anche come il “Paese dei Piccoli Borghi”, è anche vero che, a rendere tradizionalmente straordinaria l’estate italiana, è il patrimonio di festival open-air distribuiti lungo tutto lo Stivale. “If you build it, they will come”: quando si tratta di parlare della genesi di un festival musicale, torna in mente proprio quella intramontabile citazione dal film Field of Dreams: L’uomo dei sogni (1989), con Kevin Costner. Perché ciò che accomuna molte delle storie dei festival è la nascita legata a un sogno dai più considerato irrealizzabile. Dallo scetticismo generale al “mettere sulla mappa” luoghi che, in un certo senso, prima faticavano a comparirvi. Questa è la magia che la musica, in buona sostanza, opera sui territori per il tramite dei festival.

Un esempio su tutti? Il Glastonbury Festival, l’open-air per eccellenza del Regno Unito (e forse del mondo) che, prima della pandemia, vendeva in meno di una giornata lavorativa più di 200.000 biglietti e che, secondo le stime, portava anche 1 milione di appassionati nell’area di Pilton, nel Somerset, tra le più rurali d’Inghilterra. Una storia nata nel 1970, dal sogno di Michael e Jean Eavis, i proprietari di una fattoria che, ispirati da un blues festival a cui avevano assistito a Bath e dal successo oltreoceano di Woodstock, decisero di riempire anche i loro pascoli di giovani capelloni che avrebbero altrimenti percorso altre strade.

Quell’anno il Pilton Pop, Folk & Blues Festival (come si chiamava nella prima edizione) ospitò come headliner Marc Bolan coi suoi T-Rex (i Kinks diedero forfait all’ultimo minuto), il biglietto costava 1 £, con consumazione di latte fresco della Worthy Farm inclusa.

Si contarono 1.500 presenze. Già nel 1971, il festival fu spostato di data per coincidere con il solstizio d’estate, scelta fondamentale per allinearsi alle celebrazioni nella vicina Stonehenge, sede del celeberrimo santuario neolitico. Il nome divenne Glastonbury Fayre, per richiamare un altro vicinissimo luogo evocativo (secondo la leggenda, Glastonbury ospiterebbe la tomba di Re Artù). Venne inoltre introdotto il visual hammer della manifestazione, il Pyramid Stage, il palco a forma di piramide che, ancora oggi, caratterizza e rende unico Glastonbury. Certo all’epoca la piramide era poco più di un ammasso di impalcature, metallo espanso e fogli di plastica, mentre attorno alla sua evoluzione, prima del Covid, lavoravano oltre 5.400 persone impegnate nel settore della musica live.

Il caso Glastonbury porta allora con sé alcuni degli ingredienti che rendono il festival musicale, su qualsiasi scala, uno strumento eccezionale per il territorio. Innanzitutto il collegamento chiaro con le specificità della comunità e della cultura locale. Senza questo elemento, i festival diventano in breve tempo qualcosa di alieno ed estraneo, destinato a essere espulso, come il trapianto di un organo incompatibile col corpo del paziente. Questa lezione è stata ampiamente assorbita dai festival italiani che hanno, nella maggior parte dei casi, una fortissima connotazione territoriale, sia in termini di dialogo con le tradizioni, che in termini di istanze portate avanti, sostenute e comunicate.

È questo, ad esempio, il caso del Collisioni, il Festival Agrirock delle Langhe che, nel 2022, si terrà ad Alba. Un festival che è perfettamente immerso nel suo territorio e che propone perciò da sempre, oltre alle esibizioni musicali (in poco più di 10 anni è arrivato a ospitare, tra gli altri, Eddie Vedder, Thom Yorke, Elton John, Mark Knopfler, Sting, ecc.), occasioni enogastronomiche (le Langhe sono zona d’origine di alcuni tra i più apprezzati e noti vitigni e vini del Nord Italia) e incontri letterari (quella stessa terra ha dato i natali ad autori come Beppe Fenoglio, Cesare Pavese e Umberto Eco).

O ancora è particolarmente significativo, da questo punto di vista, il caso del Cinzella Festival, nato a Taranto nel 2017 e, dal 2018, “residente” in pianta stabile nella splendida arena naturale delle Cave di Fantiano, a Grottaglie (TA). Il simbolo del festival è una pecora, in ricordo dei capi di bestiame di una masseria tarantina abbattuti per la contaminazione da diossina, un cancerogeno riconducibile al ciclo di produzione dell’acciaio dello stabilimento siderurgico ex Ilva. E in effetti, al di là dei simboli, tutto il festival, che ha portato nella provincia pugliese artisti come Franz Ferdinand, White Lies, Battles, Marlene Kuntz e tanti altri, è votato alla riconversione culturale e professionale di chi vive quel territorio, dove per anni non sono state nemmeno immaginate alternative all’industria pesante.

Veniamo perciò al capitale umano musicale, altro elemento già rintracciabile nella storia del Glastonbury, e che rende particolarmente importante l’estate dei festival 2022. Una manifestazione musicale organizzata regolarmente in un territorio altrimenti non attraversato dai flussi dei “grandi tour” genera, accresce e mantiene professionalità tecniche e maestranze locali impegnate nella live music. Quello che la pandemia ci ha infatti mostrato con chiarezza inequivocabile è l’instabilità di molti di quei lavori, spesso non adeguatamente tutelati. Molto tristemente, abbiamo dovuto assistere all’abbandono, soprattutto da parte dei “lavoratori dello spettacolo” più giovani, del mestiere per cui si stavano formando, in favore di impieghi più sicuri fuori dal business musicale. È un fenomeno più volte denunciato, ad esempio, da Max Martulli, tour manager degli Afterhours, e ideatore del docufilm The Dark Side of the Show, per la regia di Francesco Adinolfo e con la partecipazione di Manuel Agnelli.

PA men, facchini, responsabili camerini, light designer, tecnici di sala, backliner, rigger e tanti altri tornano finalmente a contare su quella rete di festival radicati nel territorio che contribuisce, insieme ai tour e ad altri eventi, alla sostenibilità di tutto l’indotto e delle professionalità che vi girano attorno. 

Ma il ritorno dei festival non vuol dire solo sostenibilità economica per i lavoratori del settore. Vuol dire anche nuove provvidenziali opportunità per gli artisti e le band emergenti locali. Non esiste festival, infatti, senza un programma di palchi minori o contest per accedere al cartellone come opening act. La tanto inflazionata “gavetta” non può esistere e avere sostanza se i festival non danno occasione alle scene locali di ricavarsi il proprio spazio musicale al fianco di artisti più affermati.

I festival si fanno incubatori di idee, suoni, talenti, in maniera più sostanziale e diffusa rispetto a qualsiasi format televisivo. Su questo fronte, non si può non citare, ad esempio, la Rete dei Festival e Contest distribuita in tutta Italia e collegata al MEI, il meeting degli indipendenti. L’evento faentino ha ospitato tanti sconosciuti oggi diventati nomi di prim’ordine nel panorama musicale italiano (Bluvertigo e Maneskin su tutti) e, prima del Covid, è arrivato a dare uno spazio di esibizione anche a 400, tra artisti e band, in una sola edizione.

Learning to walk again, I believe Ive waited long enough, where do I begin?”. In questa nuova estate, la grande e vibrante macchina dei Festival dovrà re-imparare a camminare a pieno regime, un po’ come Dave Grohl in quel pezzo dei Foo Fighters datato 2011. Tutti noi, parte di quello strabiliante organismo, saremo chiamati a fare il nostro, in nome della sostenibilità del sistema, della crescita delle nostre città e regioni e del piacere ritrovato di frequentare palchi e backstage in libertà.