Osservatorio
Cover Story: Cover, Remix e Influenze

Facciamo un salto indietro di 35 anni e rotti: è fine agosto 1994, l’Italia vive la stagione inedita e immaginifica del Governo Berlusconi I. Roberto Baggio ha sbagliato da poco più di un mese il rigore più importante e maledetto della sua vita; il mondo è in disgelo, il papa è il polacco Wojtyla e in TV su Canale 5 spopola “Ok. il prezzo è giusto!” condotto da Iva Zanicchi. Un rocker trentaquattrenne nato a Correggio, noto agli appassionati del genere ma non ancora propriamente mainstream, raccoglie queste e altre immagini in un testo dal ritmo serrato e dal tono satirico che, negli storici Logic Studios di Milano, a due passi da Porta Romana, si trasforma nel singolo A che ora è la fine del mondo?.
Quel giovane capellone, all’anagrafe Luciano Riccardo Ligabue, ancora non lo sa, ma quelle session, per la prima volta con musicisti esterni ai Clan Destino, la band che lo aveva spalleggiato per tutta la fase “provinciale” della sua carriera, sarebbero state l’antipasto per Buon Compleanno Elvis!, del 1995, l’album che lo avrebbe reso l’altro volto da copertina del rock italiano, accanto al Blasco. Non sa nemmeno che, proprio quel successo di là da venire, avrebbe relegato It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine) dei R.E.M., il brano da lui coverizzato in quel caldo agosto italiano, al ruolo di “cover di Ligabue” nel nostro Paese. È la magia o la forza delle cover che, in Italia, da sempre portano a un continuo ribaltamento di ruoli tra canzoni, versioni, reinterpretazioni. E così capita che un disco d’oro UK del 1987, nella percezione comune, smetta di essere “l’originale” e diventi “il secondo arrivato”.
Va sottolineato come queste dinamiche, sicuramente molto forti in Paesi come l’Italia o la Spagna, dove gli ascoltatori per decenni hanno subito il fascino della cultura e del sound del mondo anglofono - ma un po’ meno, per così dire, quello della lingua inglese in sé - siano in realtà molto presenti nel mercato discografico di tutto il mondo. La musica degli altri è spesso benzina, materia prima già raffinata, per alimentare il proprio motore sonoro e accelerare in direzione successo.
Rimanendo agli anni ‘90 e limitandoci agli Stati Uniti, come non citare Knockin’ On Heaven’s Door da Use Your Illusion II dei Guns ‘N Roses, cover della ballata scritta da Bob Dylan nel 1973 per il film Pat Garrett And Billy The Kid? O ancora The Man Who Sold The World, dall’MTV Unplugged dei Nirvana, reinterpretazione pazzesca di un brano di Bowie del 1970 (dalla stessa esibizione in acustico, menzione d’onore per Lake Of Fire, da un originale dei Meat Puppets del 1994)? In questi casi, tra l’altro, le cover hanno avuto un successo tale da consegnare all’immaginario di una nuova generazione dei brani che, per motivi anagrafici, non vi appartenevano affatto.
Sempre in area grunge, va sicuramente ricordata la versione dei Pearl Jam di Last Kiss, pubblicata nel 1999 e diventata il singolo di maggior successo nella storia della band di Eddie Vedder e compagni. Eppure sono relativamente in pochi a sapere che si tratta di una cover di una canzone registrata per la prima volta nel 1961 dal “cavaliere bianco del Soul”, Wayne Cochran. E la storia discografica di quel brano andrebbe trattata come si tratta in pittura una parete palinsesto, con i suoi strati su strati di cover internazionali. La prima, già tre anni dopo l’uscita dell’originale, ad opera del gruppo jazz The Cavaliers di J. Frank Wilson, passando poi per il Perù e la Colombia, rispettivamente con i Los Doltons e Alci Acosta negli anni ‘60, per il Canada negli anni ‘70 con i The Wednesday e in Messico con la voce di Gloria Trevi poco prima dei PJ.
Per non (s)cadere nel gioco un po’ feticista dell’erudizione musicale, è importante piuttosto storicizzare il ruolo delle cover nella discografia, la sua evoluzione nel tempo, l’attuale senso di questa prassi. In un certo senso, le cover sono il “peccato originale” del mercato discografico, almeno in due accezioni diverse. Ai primordi della moderna record industry, le cover infatti avevano innanzitutto un ruolo strumentale nella competizione tra etichette discografiche. Servivano letteralmente a soffocare la concorrenza, mostrando come il proprio artista potesse surclassare per qualità e gradimento quello della label rivale sulla stessa materia sonora.
Non solo, perché in un mondo in cui i supporti fisici erano ancora costosi e non accessibili ai più, il successo musicale si costruiva soprattutto in radio o al jukebox. Perciò la cover aveva l’obiettivo di raggiungere con una stessa canzone “nell’interpretazione giusta” diversi target audience, in senso regionale ma anche - molto spesso - etnico. La storia del rock’n’roll nasce, in buona sostanza, con la coverizzazione da parte di molti artisti bianchi di pezzi blues di artisti afroamericani. E non a caso molti di quegli artisti blues per anni si sono sentiti “derubati” della loro stessa musica.
Le cose hanno iniziato a prendere un’altra piega proprio con la progressiva industrializzazione della discografia. Le cover hanno trovato nuova utilità nel fornire materiale presto riutilizzabile per assicurare la necessaria serialità alle uscite degli artisti pop impegnati in una corsa senza fine in equilibrio sulla cresta dell’onda. In quest’ottica non esiste carriera più esemplare di quella del re, Elvis, che sotto l’ingombrante egida del suo famigerato manager, il Colonnello Tom Parker, ha registrato versioni di standard di ogni provenienza, dalle Hawaii all’Italia, dalla Spagna alla “vecchia fattoria”, mese dopo mese, anno dopo anno.
In Italia nell’era del beat, fino al 1970, il mercato delle cover italiane di successi (soprattutto inglesi) è stato una sorta di “gallina dalle uova d’oro” a cui attingere a piene mani. Investimenti quasi sicuri per le etichette, forti di un successo già verificato all’estero e del bisogno tra i giovani italiani di uno svecchiamento nel sound della musica pop del nostro Paese. Si pensi su tutti ai grandi successi del giovane Morandi, come Scende la pioggia (Elenore dei Turtles) o Se perdo anche te (Solitary Man di Neil Diamond, con le musiche riarrangiate da Ennio Morricone).
Dopo quella stagione, le cover hanno progressivamente perso importanza commerciale e per diversi anni le necessità artistiche sono state messe in primo piano. Gli interpreti hanno iniziato a centellinare le reinterpretazioni (a tutto vantaggio della qualità) e a realizzarle in maniera più libera per omaggiare, tributare, ringraziare artisti del passato o di altri Paesi sentiti in qualche misura come spiriti affini.
Oggi, nell’epoca dei talent e della musica liquida, si è pervenuti a nuove forme di strumentalizzazione. Dare una propria interpretazione dei successi degli altri (recenti e non) alimenta le logiche televisive di tutti i talent show in Italia come all’estero. È proprio sulle cover che gli emergenti si misurano e vengono giudicati. E, se da un lato, riarrangiare e suonare con il proprio stile i brani che hanno fatto la storia è sicuramente parte di un naturale processo formativo, si potrebbe affermare che queste dinamiche tolgono sicuramente spazio e copertura mediatica a quello che effettivamente è il bagaglio artistico interiore che questi nuovi artisti portano con sé. Coverizzare e pubblicare cover diventa inoltre uno strumento per veicolare traffico dai motori di ricerca interni dei siti e delle app di streaming, per “farsi trovare” incidentalmente nelle ricerche per canzoni degli utenti, anche se ancora non si ha un nome.
Va detto che c’è chi in tutto questo vede anche una grande contraddizione del presente mercato discografico da denunciare, soprattutto in Italia. Il festival nazionalpopolare propone da anni una serata cover e spesso si è insinuato che le scelte siano dettate dal riproporre artisti e canzoni in catalogo nella stessa major del concorrente, piuttosto che da effettive affinità artistiche e ricerche sonore.
La prospettiva storica sulla musica degli altri comunque cambia e non poco se ci spostiamo di genere, dal pop e dal rock alla disco, all’elettronica e alla house music, categorie musicali che hanno fatto della manipolazione della materia musicale altrui il presupposto stesso della creazione. Il campionamento ad arte è forse la più nobile forma di riutilizzo musicale a cui è approdata la storia della musica nel recente passato.
A titolo di esempio, sarà sufficiente ricordare il modo in cui i Daft Punk hanno “rimescolato le carte” di Release The Beast dei Breakwater per creare la loro iconica Robot Rock; o ancora il pastiche di Bernard Purdie, batterista afroamericano degli anni ‘70, The Crusaders e del rapper Schooly D su cui si muovono i Block Rockin’ Beats de The Chemical Brothers; ma anche il collage di country (il pianoforte di Hoyt Axton), spiritual (la voce di Camille Yarbrough), funk (le percussioni da brani di Isaac Hayes e Rare Earth) e stravaganza Disney (le chitarre da Mickey Mouse Disco) che sono gli ingredienti di Praise You di Fatboy Slim.
Questa è forse la forma più cristallina di musica degli altri portata su un altro livello, in una nuova dimensione di vita e significati. Tra contaminazioni culturali, dialoghi arditi, accostamenti inesplorati, impensabili prima che il genio creativo di questi dj sprigionasse tutta la loro potenza nell’emozione e nell’atmosfera inedita che restituiscono all’ascoltatore.
Perché, in fondo, al di là del coverizzare, ciò che di più prezioso la musica degli altri ci restituisce è proprio l’influenza e il confronto. Per questo a ogni livello e in ogni genere è importante un ascolto attento e interiorizzato degli altri, degli attori che fanno parte della propria scena musicale e di chi, nonostante le distanze, riusciamo comunque a raggiungere oggi grazie alle reti. Questo vuol dire andare ad ascoltare gli altri emergenti o gli altri jazzisti o gli altri dj dal vivo, farsi spingere da ciò che di diverso, migliore o peggiore che sia, fanno rispetto a noi. Lasciarsi attraversare dalle differenze, farle proprie, spingersi oltre la copia o il temutissimo plagio, creare nuovi standard e riferimenti per gli altri.
Alla fine che cos’è il genio? “È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione”. È credere nella musica degli altri, più di loro stessi. È un Damon Albarn qualsiasi che prende il preset Rock 1 del suo vecchio Suzuki Omnichord e capisce che dentro quel beat/riff portante c’è già la sua Clint Eastwood, originale di un anonimo ingegnere elettronico giapponese, pronta per diventare qualcosa di molto più grande.
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