Interviste
Rodrigo D'Erasmo: Contaminazioni e Viaggi Sonori

Per molti il “violinista rock” italiano per eccellenza, Rodrigo D’Erasmo è un artista dai mille interessi, pronti sempre a riverberarsi in tutte le sue creazioni. Abbiamo parlato con lui di strumenti, Afterhours e nuovi stimoli.
Ciao Rodrigo, partirei dall’attualità di questo autunno. Sei reduce da quattro giorni di residenza artistica all’Angelo Mai con lo spettacolo Scopate sentimentali. Esercizi di sparizione, dedicato a Pier Paolo Pasolini. Come sono nate le musiche per questo spettacolo e quale paesaggio sonoro avete cercato di raccontare?
Sono nate a quattro mani con Mario Conte, un musicista e produttore napoletano di grandissimo talento che è un pioniere e un eccezionale ricercatore nel campo della manipolazione del suono sintetico. L’unione dei miei strumenti, violino, chitarra elettrica e percussioni, e del suo utilizzo molto ricercato e personale dei sintetizzatori ci ha permesso di creare un dialogo fra epoche. Abbiamo cercato infatti, da una parte, di attraversare gli anni 50, 60 e 70, quelli nei quali Pasolini ha vissuto nel pieno la sua attività di poeta, artista e agitatore, ma anche, dall’altra, di fare salti temporali, di gusto e reference musicali, facilitati dalla carica visionaria di Filippo Timi (attore e regista dello spettacolo, Ndr). Il risultato è una commistione affascinante che spazia dalla musica del Duecento, contaminata e “ammalata” elettronicamente, fino a Mina e agli Afterhours, da Scelsi a Penderecki. Tutto filtrato attraverso la nostra lente per creare un paesaggio sonoro originale a cui non mancano intermezzi folli, tribali o techno, sui quali sfogarmi coi tamburi e spaccarmi le mani ogni volta.
Stiamo cercando di raccontare il “Rinascimento Vivo”, ovvero quell’onda lunga di desiderio per i live negli anni post-lockdown. Vivendo i palchi e i backstage in tutta Italia, percepisci ancora l’energia di questa rinascita?
Sì, penso ci sia ancora, anche se molto dopata dai grandi numeri raccolti da un certo tipo di artisti. Ciò che ancora si deve innescare del tutto - e io spero accada al più presto - è il riverbero di tutta questa sequela di sold out di arene sugli spazi medio-piccoli, luoghi dove a mio avviso germoglia quella controcultura più vicina alla mia sensibilità, fatta di mescolanza fra discipline, contaminazioni e sperimentazioni. Quel versante, per assurdo, potrebbe aver patito un po’ i grandi numeri. Nel mezzo poi ci sono tutti quegli act che fanno stabilmente da anni numeri tra i 500 e i 1000, a seconda dell’hype attorno a un determinato album, e penso anche loro abbiano giovato di questo desiderio di ritorno al live. Tant’è che tantissimi miei colleghi sono perennemente in tour, anche comprensibilmente per mantenere certe macchine musicali vive e attive. Mi sembra mancare al momento un po’ di proposta alternativa, coraggiosa e di rottura. Te ne riesco a citare una che è, a mio avviso, quella dello spettacolo dell’ultimo disco di Giovanni Truppi, che ho visto a Milano in un ex strip club in zona Nolo. Uno show breve, accompagnato dalle ballerine del collettivo UNTERWASSER che erano sempre in scena e creavano, insieme a Giovanni, quasi un gioco di ombre cinesi su un telo alle spalle. Ne è venuta fuori una performance boutique, un orologio perfetto, un meccanismo basato su tantissime idee e tantissimo talento, tirato su con relativamente pochi mezzi. Uno spettacolo che mi ha fatto andare a letto con la testa attiva e la voglia di inventarmi qualcosa di altrettanto creativo.
Vorrei fare uno sforzo retrospettivo insieme a te: tornando alla tua formazione classica, quanto è stato importante per te, oltre che studiare a Roma, formarti in una patria di grande tradizione violinistica come la Russia?
L’esperienza con il maestro Sergey Dyachenko è stata quella che mi ha fatto decidere di fare questo nella vita. Un po’ perché aveva una mentalità molto più aperta di quanto avessi trovato in Italia quanto al mio desiderio, che già scalciava, di allontanarmi dal linguaggio classico; un po’ per il rigore tecnico che mi ha permesso, prima di iniziare a spaziare, di acquisire solidità nelle impostazioni e nei fondamentali. Senza la scuola russa non avrei saputo trovare il mio modo, sporcando e contaminando, perché non avrei avuto quell’intonazione e quella prontezza di orecchio, grazie alle quali posso pescare da una nebulosa la nota giusta. Per quanto invece concerne la mano destra ci ho messo decisamente del mio, per allontanarmi da quel rigore e trovare una dimensione sonora e un timbro che mi appartenessero di più. La buonanima del maestro, guardandomi oggi, mi darebbe più di qualche bacchettata sulla mano destra (ride, Ndr).
Nel 2008, 15 anni fa, entri a far parte degli Afterhours. Ci puoi raccontare come sono stati i primi mesi e quanto tempo ci hai messo a trovare spazio per la tua creatività?
I primi mesi furono travolgenti, perché I Milanesi era appena uscito. Dario Ciffo, il mio predecessore, aveva fatto le primissime presentazioni. Io andai a vederli e, mentre facevamo serata nell’aftershow in un albergo romano, Manuel, appena conosciuto, mi parlò della possibilità di entrare. Erano i primi di maggio. Formalizzammo tutto un paio di settimane dopo e, ai primi di giugno, ero a Toronto a suonare il mio primo live al North by North-East, con seconda data alla Mercury Lounge a New York, dopo dieci giorni di prove serrate. Al ritorno è partito subito il tour in Italia che si è spinto fino a settembre inoltrato, poi di nuovo in America in giro con i Gutter Twins di Mark Lanegan e Greg Dulli. Nel febbraio successivo siamo stati per la prima volta a Sanremo e nell’estate ancora in tour in Italia. Insomma i primi due anni sono stati davvero mozzafiato. Il momento in cui ho cominciato a essere davvero parte creativa del tutto è stato segnato da Padania. Con quel pezzo ho davvero iniziato a dare il mio contributo creativo in maniera sostanziale negli After, andando poi in crescendo fino a Folfiri, un album concepito da subito a quattro mani con Manuel, che ha sancito il rapporto artistico elettivo tra noi due.
Parlaci della tua relazione con strumenti musicali e gear. Quanto studio a livello di strumentazione c’è voluto per arrivare a essere il “violino rock” per eccellenza in Italia?
È stata una ricerca molto empirica e avventurosa, iniziata sul campo, quando non c’era accesso a informazioni, tutorial YouTube, ecc. Ricordo ancora la prima volta in cui, con la mia fidanzatina violista dell’epoca, vidi all’ex La Palma Club, oggi Monk, i Dirty Three di Warren Ellis. Rimasi folgorato da quel capellone pazzo che suonava il violino in una maniera mai vista. Dopo il concerto, andai sotto il palco a guardare che cazzo c’aveva lì ai suoi piedi. Presi appunti su un bel foglietto e il giorno dopo, con le tasche piene di monetine, andai da Bandiera, negozio storico a Roma, per prendere quello che potevo. Molto importante è stato il passaparola e lo scambio soprattutto con i chitarristi: in ogni studio ero il rompicoglioni che doveva provare le pedaliere e i pedali di tutti, anche perché il violino reagisce in maniera completamente diversa. Pian piano mettevo insieme i pezzetti di questa mia ricerca sonora personale: il wah ho dovuto farlo modificare per ottenere la campana per me ideale, con le distorsioni non ho mai smesso di sperimentare. Oggi ormai ho una montagna di pedali, però vado in giro con quattro cazzate. Perché, dopo tutti questi anni, mi bastano le due cose che mi appartengono di più e che sento sufficienti per la mia voce. Io non sono un nerd che studia ogni minimo aspetto del pedale, sono un istintivo. Se, provandolo, un gear mi stimola, so che devo averlo perché sono sicuro che prima o poi quel suono finirà in un disco. Ad esempio, quando andai in fissa con il Ringtone della ZVEX, acquistandolo direttamente a Minneapolis dal “signor ZVEX”, trovai subito il luogo dove ficcarlo in Giù Nei Tuoi Occhi. È quasi un gioco che non smette mai di divertirmi.



