Interviste
Big Fish: Questione di Feeling e Originalità

Dopo anni di collaborazioni con Fabri Fibra, Mondo Marcio, Caparezza, Nesli e tantissimi altri, Big Fish ha ritrovato alla fine dello scorso anno Tormento e i Sottotono: col singolo "Mastroianni", il duo si è ripresentato alla grande. Abbiamo deciso di parlare con lui di questo, ma anche della sua professione e del suo rapporto con il music business oggi.
Ciao Fish, partiamo dall’attualità: il 2022 segna un momento di ripartenza personale per te che hai ritrovato il tuo socio originale, Tormento, con l’album Originali. Ti aspettavi che il vostro sound potesse avere un tale impatto a distanza di vent’anni?
Sì, vent’anni dal nostro - tra virgolette – scioglimento. Abbiamo capito di essere riusciti in qualche modo a lasciare un segno nel panorama musicale italiano, nel senso che siamo stati capaci di essere unici nel nostro fare musica e la gente ci ha ripagato. Mi fa piacere notare che questo ci ha messo in condizione di riportare sulla scena un suono che non c’era più. Non appena la gente ha sentito un sound diverso da quello che andava in quel momento, ha capito che erano tornati i Sottotono.
Nel mondo del Rap e della musica in generale, c’è un po’ questa tendenza a fare delle cose che vanno già, per stare tranquilli. Noi abbiamo sempre cercato di creare della musica che innanzitutto ci appagasse professionalmente e che, nel rispetto dei nostri gusti, fosse qualcosa che gli altri non facevano. Ed è stato figo ritrovare la gente, i media e i nostri fan che hanno accolto subito questo ritorno con gioia.
Per quanto riguarda l’esperienza in studio, avete ritrovato i flussi di lavoro della prima parte della vostra carriera o avete stravolto un po’ tutto?
Diciamo che il modo di lavorare è stato molto più consapevole. Io oggi ho 50 anni e Tormento ne ha 46. Abbiamo comunque cercato di essere quelli degli anni ‘90, mantenendo l’artigianalità e l’inconsapevolezza nel fare determinate scelte. Però tutto questo, inevitabilmente - perdona il gioco di parole - anche con la consapevolezza di essere degli uomini che hanno fatto un sacco di cose nel frattempo. E quindi, sai, con quella passione che è diventata un lavoro, abbiamo aperto gli occhi su tutti quei passi falsi da non rifare.
Nella tua carriera sei stato sia producer, così come lo si intende nell’universo Rap, sia produttore discografico “tout court” per molti artisti che sono arrivati dopo di te. Come percepisci e concepisci tu questi due ruoli?
Sicuramente fare la roba per i Sottotono vuol dire essere anche un artista e far parte di un meccanismo per il quale sei il 50% di un progetto. Ti senti molto coinvolto perché vuoi che il progetto rispecchi la tua personalità e la tua idea di musica. Fare il produttore per altri, mentre tutti pensano che permetta di esprimersi comunque artisticamente, in realtà vuol dire mettersi a disposizione del tuo cliente, del tuo committente.
Quando sei produttore puoi dire “ok tu sei questo, io farei questo”, però è anche e soprattutto la parola dell’artista a contare, perché poi è lui che va sul palco. I produttori che si impongono, i produttori che dicono all’artista “no, fai fare a me, perché tu non sai fare un cazzo” perdono completamente di credibilità, mettendo davanti la loro personalità.
In quanto produttore realizzato, hai visto nel tempo cambiare i rapporti con gli artisti? Penso soprattutto ai più giovani: c’è magari del timore reverenziale che devi un po’ combattere per permettere loro di esprimersi al 100% da un punto di vista delle scelte creative?
C’è da dire che purtroppo oggi i ragazzi molto giovani, a differenza di quello che succedeva negli anni ‘90, hanno… non so come dirti… La spocchia di sapere già tutto. Quindi il discorso è che arrivano in studio e ti dicono “fidati che si fa così”. Ma io non è che mi devo fidare… cioè che vuol dire? (ride, Ndr). Il problema è che non c’è più, purtroppo causa social, una decenza e un’originalità nel porsi. Perché comunque i social cercano di uniformare tutto e tutti. Perciò i ragazzi vogliono quasi farti capire che la via giusta è quella di essere uguali agli altri. Mentre prima c’era più amore per la musica e meno consapevolezza dell’immagine, adesso l’immagine viene prima. Arrivano da me in studio degli esperti di marketing: cantanti, produttori, ballerini, video maker, che però hanno 16 anni. E mi dicono “fidati che si fa così”.
C’è qualcosa che ti manca di ciò che era tipico di quel momento di passaggio dall’analogico al digitale degli anni in cui hai cominciato?
Ecco, il problema è proprio che noi abbiamo iniziato con l’analogico-digitale, con i nastri. Cioè dovevamo connettere a un nastro il mio computer, che era scassato, e passare così tutte le tracce. Tormento cantava sul nastro, non c’era l’hard disk recording. Mi manca un po’ la pasta del suono, ma chiaramente la comodità è la comodità, non c’è altro da dire...
Che rapporto hai oggi con la strumentazione? Hai delle macchine a cui sei fedelissimo o ti piace molto sperimentare con tutto quello che propone di nuovo il mercato?
La tecnologia di oggi la uso per fare determinate cose, come alcuni lavori sulle voci. Però io tendo a portare la tecnologia vecchia nel sound, perché per me è importante ritornare lì, cercare di avere quel suono che ti porta a essere più vero. Adesso, se pensi un po’ a quello che si sente in giro, è tutto un “compro il portatile, scarico dei banchi di suoni, scarico dei plug-in” e per il resto nessuno compra niente. Forse si compra solo il computer e da lì sei a posto, hai fatto il compitino, non c’è ricerca. C’è solo voglia di arrivare il prima possibile a guadagnare dei soldi. Per noi è ancora divertimento e ricerca invece.
Leggevo qualcosa del tuo libro, Il Direttore del Circo, nel quale hai cercato di raccontare la tua vita da professionista della musica ai ragazzi. Oggi, con il music business liquido e in continua evoluzione, quale messaggio consegneresti a un artista emergente o in generale a chi vuole lavorare con la musica? Ha ancora senso fare il “porta a porta” con le etichette discografiche, magari sfruttando le potenzialità della rete?
Io dico solo di vivere tutto senza la smania di avere dei risultati, dei soldi immediati. Gli emergenti devono solo pensare a farsi le ossa, sfruttando la tecnologia a loro favore, senza stare ad aspettare le etichette. Il succo di questo discorso - secondo me fondamentale - è che hai la possibilità di far vedere quanto sei bravo, di far conoscere la musica che vuoi fare nella vita. Allora il mio messaggio è: cerca di sfruttare i social e la tecnologia, ma non stare a pensare “eh però se io faccio uscire questo pezzo piuttosto che un altro diventa meglio a livello di marketing”. Ormai sento tutti esperti di marketing. Ma fate la musica e non rompete le palle, no?
Rido perché ho tanti amici che lavorano in agenzie di marketing, però è molto interessante quello che dici…
Sì, ma quello è il loro lavoro. Però, se un diciottenne che vuole fare musica ne fa un discorso di marketing e si mette in bocca parole come posizionamento, branding, c’è un problema. Ma cosa cazzo state dicendo, no?
Con il calendario degli impegni pieno di progetti, riesci ancora a frequentare le scene e a scoprire cose nuove?
Fortunatamente ho cinque ragazzi che lavorano con me tra studio, gestione, ecc. Qualcosa salta sempre fuori, alla fine. Anche perché devi essere sempre aggiornato e avere dimestichezza coi nuovi linguaggi.
C’è qualcosa che ti piace in particolare della musica di oggi?
Mah, di oggi mi piace chi è diverso dagli altri, chi non si vuole uniformare a questo mondo della musica dove tutti cercano quello che esiste già.
Quindi l’originalità sempre e prima di tutto?
Sì. E poi guarda, io lavoro anche con produttori giovani e, essendo ormai più un direttore creativo, mi capita magari di proporre qualcosa e sentirmi rispondere “eh, non si può!” . E quando chiedo perché, capisco che il motivo è che non c’è voglia di rischiare. È un po’ la popolazione di internet che ragiona per codici, no? 010101. Io non so neanche cosa siano i codici, io provo a orecchio perché fare musica, soprattutto il Rap, è feeling. In un’intervista di qualche tempo fa mi è capitato di definirmi “il capo delle porcherie”, perché ho fatto cose come mettere pezzi di batterie in mp3, voci in mp3, ma non mi interessa. Se a me piace, va bene così. E dei giovani fonici mi dicono: “eh se tu dai questo messaggio, noi che cerchiamo la pulizia non lavoriamo più”. Ma saranno ben cazzi tuoi se non lavori più perché sei fermo su schemi mentali assurdi, antiquati. Perché veramente l’approccio non deve essere scolastico, deve essere di feeling nella musica. Perché conta di più avere un’idea che essere tecnicamente bravo.
Be' allora ti ringrazio per il feeling a nome della redazione di SMMAG!
Fantastico, grazie mille a voi!



